8 dicembre 2006 -- Immacolata Concezione
Gn 3,9-15.20 ; Ef 1,3-6.11-12 ;
Lc 1,26-38
O m e l i a
Quello che celebriamo oggi è un
aspetto, un’immagine parziale del mistero cristiano. In effetti, anche se
parliamo spesso di “misteri” (al plurale), concepiti come altrettante verità di
fede che oltrepassano la nostra capacità di comprensione, non vi è in realtà
che un solo mistero: quello della salvezza offerta da Dio alla sua creatura.
Tutti gli altri misteri, tutti gli altri dogmi non sono altro che aspetti di
questo mistero complessivo che ha conosciuto la sua piena manifestazione in
Gesù di Nazareth, figlio di Maria, Dio fatto uomo. Tutte le nostre formule
dogmatiche – le più antiche come le più recenti – sono tentativi umani di
esprimere con parole nostre l’ineffabile. Si potrebbe anche dire che ciascuno
di questi dogmi, ciascuna di queste formulazioni è una finestra attraverso la
quale possiamo gettare uno sguardo sul mistero infinito di Dio.
Così è stato per il dogma
dell’Immacolata Concezione; ci sono voluti diciannove secoli alla Chiesa per
arrivare a formularlo. E ancora, lo ha formulato secondo categorie teologiche del
momento. Prima della formulazione del
dogma, c’era la festa. Questa festa ha trovato la sua origine nei monasteri di
Palestina e Siria, nei primi secoli della Chiesa, da dove è passata in Irlanda. Sembrava naturalissimo a quegli antichi monaci,
che vivevano un’esperienza profonda di Dio, senza preoccuparsi di formule
teologiche per esprimerla, celebrare la nascita tutta pura di Maria. E questa
convinzione rimase ancorata nell’esperienza religiosa del Popolo di Dio durante
due millenni, anche se, nel corso del Medioevo, i più grandi teologi, come san
Tommaso, san Bonaventura e perfino san Bernardo, il grande cantore di Maria,
non potevano rassegnarsi a credere che una creatura, e anche Maria, fosse nata
senza la macchia del peccato originale.
E senza dubbio, anche dopo la proclamazione del dogma dell’Immacolata
Concezione, ciò che ha fatto e fa ancora problema per molti è questa connessione,
concettualmente stabilita, tra la purezza totale di Maria e un certo modo di
concepire il peccato originale, che non sta più in piedi.
Tornando all’intuizione
contemplativa dei monaci orientali dei primi secoli, che celebravano la nascita
di Maria, mentre celebravano tutti gli altri santi nel
giorno della loro morte, noi percepiamo che l’essenziale di questo mistero è in
realtà il fatto della partecipazione della creatura umana alla divinità del suo
creatore. Siamo destinati ad essere partecipi della natura divina, secondo la formula
molto forte della seconda lettera di Pietro. O ancora, secondo la formula che
ripetono, ciascuno a suo modo, tutti i Padri greci, Dio si è fatto uomo perché
noi siamo trasformati in Dio. In ogni essere umano vi è una resistenza a questa
trasformazione, un rifiuto di crescere, che è la natura stessa del peccato. In
ogni essere umano all’infuori di Gesù di Nazareth, eccetto che in Maria. In lei nessun
rifiuto, nessuna resistenza. Lo Spirito ha dunque potuto
penetrare tutto il suo essere, il suo corpo come il suo spirito, e nel suo
corpo, generare Dio.
Per mezzo di questa totale
assenza di rifiuto, essa trascende i limiti umani, compresi quelli del tempo. Maria
è. Paul Scolas, in una conferenza recente, ci segnalava il contrasto tra
l’affermazione di Gesù: « Io sono » (ego eimi) e la risposta del
peccatore che era Pietro quando disse alla serva che gli aveva detto che lui
doveva essere uno dei discepoli di Gesù:
« Io non sono » (ouk eimi).
Di tutti gli esseri umani Maria era la sola che poteva dire « Io
sono ». E’ quanto ha detto, trascendendo il tempo e lo spazio, a Bernadette
Soubirous : « Io sono l’Immacolata
Concezione ».
Nella misura in cui siamo
peccatori dobbiamo dire con Pietro: « Io non sono ». Nella misura in cui
ci lasciamo trasformare dalla grazia della conversione, che è una grazia di
divinizzazione, noi possiamo dire con Maria : « Io
sono ».
Omelie per la stessa solennità,
gli anni precedenti:
1998 français
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2003 français
2004 Deutsch
2005 français
Armand VEILLEUX