10 settembre 2000  -- XXIII  domenica "B"

Is 35,4-7a; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37

 

O M E L I A

 

            Gesù parlava aramaico, e i Vangeli che possediamo sono stati scritti in greco (benché quello di Marco sia stato scritto in aramaico).  Vi sono tuttavia dei luoghi nel Vangelo in cui una espressione utilizzata da Gesù è riportata in aramaico, anche nel corpo del testo greco, senza dubbio perché una certa espressione aveva colpito in modo particolare gli uditori. A parte il grido sulla croce (lama  sabachtani) questi casi si ritrovano nelle descrizioni di guarigioni operate da Gesù.  Dobbiamo fare attenzione a queste espressioni, perché ci rivelano qualcosa che il resto del testo non dice.

Se leggiamo un po’ attentamente  la traduzione, constatiamo semplicemente che Gesù mette le dita nelle orecchie del sordomuto, e prendendo un po’ di saliva, gli tocca la lingua dicendo: “Effata”, cioè “Apriti”. Subito le sue orecchie si aprirono…e la sua lingua di sciolse. L’espressione “Effata” in aramaico è un imperativo, al singolare. L’ordine di aprirsi  non è dato né alla lingua, né alle orecchie, ma alla persona. E’ all’infermo stesso che Gesù dice “Apriti”. E quando costui si apre, tutto ciò che in lui è legato si scioglie. Egli ridiventa una persona libera.

Contraddizioni apparenti del testo ci rivelano diverse altre connessioni simboliche. L’uomo si mette a parlare quando le sue orecchie si aprono. Vi è dunque una relazione profonda tra l’ascolto e la parola. Vi è una relazione fisica, evidentemente, ma ve ne è anche una simbolica e spirituale. Parlare è una forma importante di comunicazione tra gli esseri umani (non la sola, tuttavia, anche se la nostra cultura occidentale l’ha privilegiata a detrimento di  diverse altre forme di comunicazione umana). Comunicazione significa comunione, e implica uno scambio che va nei due sensi. Colui che non ascolta non comunica; e dunque nemmeno parla veramente.  Non fa che produrre suoni vocali. E’ interessante constatare che il nostro testo (nell’originale greco) non dice propriamente che l’uomo in questione era “muto”. Dice piuttosto che aveva una difficoltà di locuzione (era mogilàlos –  parola che non si trova che una  volta nel Nuovo Testamento). Non poteva parlare convenientemente perché non ci sentiva. E non ci sentiva perché non era aperto. Quando ebbe sentito l’ordine di Gesù: “Apriti !” cominciò a sentirci bene , e dunque anche a parlare come si conviene.

Isaia ci dà una descrizione molto bella e poetica del regno messianico, che appaga l’aspirazione, profondamente radicata nel cuore umano, di un ritorno al paradiso, dove: “L’acqua scaturirà nel deserto, torrenti nelle terre aride”. Ma questo non accadrà come per incanto. Accadrà quando gli occhi dei ciechi saranno aperti e le orecchie dei sordi saranno liberate  e la lingua dei muti canterà. Ciò accadrà a loro volta agli uomini, quando anche loro saranno aperti gli uni verso gli altri, e aperti a Dio.

Ad un certo momento della storia  l’umanità è diventata totalmente aperta in una persona, Maria di Nazareth. E poiché lei era totalmente aperta, ricevette la pienezza del Verbo di Dio. Tutto il suo essere ne fu penetrato; dalla sua carne e dal suo sangue, ma anche per l’amore del suo cuore, essa generò Dio.

Suo figlio era anche lui talmente aperto, e in modo così radicale, da rendersi totalmente vulnerabile per noi e verso di noi: e le sue ferite sono diventate i  canali più preziosi per comunicare con noi.

Che questa celebrazione eucaristica, fatta in memoria di Lui,  possa essere la fonte, e al tempo stesso l’espressione della nostra apertura a Lui, e anche della nostra apertura degli uni verso gli altri.

 

Armand VEILLEUX