13 febbraio 2000 --VI domenica "B"

Lev 13,1...46; 1Co 10,31-11,1; Mc 1,40-45

 

O M E L I A

 

 

            La  prima e la terza lettura di oggi parlano entrambe di qualcosa che generava terrore nel mondo antico: la lebbra. “Lebbra” era una parola generica, che copriva una  grande quantità di malattie, specialmente malattie della pelle, e soprattutto le malattie contagiose e incurabili. Come reazione all’orrore che gli uomini provavano nel loro intimo di fronte a queste diverse forme di malattie, essi  davano l’ostracismo a quanti ne erano vittime e li separavano dal popolo, spesso in virtù di leggi religiose. Così, non soltanto si proteggevano dal contagio fisico, ma si mettevano al riparo, psicologicamente, dal guardare dentro se stessi.

 

            Uno dei grandi romanzi del nostro secolo – un romanzo che valse al suo autore un premio Nobel – è La Peste di Albert Camus, pubblicato poco dopo la seconda guerra mondiale (1947). Questo romanzo racconta la storia di una città dell’Algeria, dove la popolazione è improvvisamente colpita da un’epidemia di peste bubbonica, una peste che, in diverse epoche, nel corso della storia, prima della scoperta del vaccino, decimò interi settori della popolazione del globo. La città viene messa in quarantena, e tutto il libro è una descrizione dell’atteggiamento di un certo numero di personaggi, allorchè sono messi a confronto con questo male fisico inatteso. Credo che chiunque voglia riflettere seriamente sul contagio moderno rappresentato dall’AIDS, per esempio, debba leggere questo romanzo.

 

            Camus non era cristiano, benché nella sua giovinezza abbia scritto una tesi dottrinale su Sant’Agostino. Non è neppure ateo. Si considera post-cristiano. E poiché egli mette molto onestamente in questione la cristianità, tale quale l’ha conosciuta nel suo modo di reagire al male, riscopre e trasmette verità e atteggiamenti che sono talvolta in realtà profondamente cristiani.

 

            Questo libro è un mito moderno che concerne il destino dell’uomo e ciò che il poeta inglese Hopkins chiamava “la danza della morte nel nostro sangue”. Per Camus questa “danza della morte”, questa propensione nascosta  alla pestilenza, è qualcosa di più della semplice mortalità; è la negazione deliberata della vita…l’istinto umano di dominare e di distruggere, di cercare la  felicità propria distruggendo la felicità altrui, di stabilire la propria sicurezza sul potere e, per estensione, di giustificare l’uso perverso di questo potere in termini di “storia”, “bene comune” o “sicurezza nazionale”, o peggio, in termini di “giustizia di Dio”.

 

            Vi sono due personaggi principali nel romanzo: un prete ed un medico. Il medico – dottor Rieux – è il primo a scoprire i segni della peste.; e gli occorrerà tempo per convincere tutti gli altri di ciò che a lui è evidente. Per tutto il tempo in cui la peste dura in città – e si tratta di anni -  si dedica totalmente a curare i malati, organizzare i servizi di sanità, seppellire i morti , inventare un vaccino, e finalmente mettere fine all’epidemia. Tutto ciò non è per nulla considerato da lui e da Camus come qualcosa di eroico o di virtuoso.  E’ semplicemente quanto egli doveva fare nell’immediato. Voi non elogiate un professore per insegnare che due più due fanno quattro, dice. Se qualcuno è nel bisogno e voi potete fare qualcosa per lui, dovete semplicemente farlo. Non vi è niente di speciale in questo, anche se mettete a rischio la vostra vita, e anche se morirete. Dopo tutto, dice Camus, viene sempre un momento nella vita in cui coloro che affermano che due più due fa quattro, sono messi a morte.

 

            La storia del prete è interessante. All’inizio ha pronte tutte le risposte. La città, dice, è stata colpita dalla peste, perché il popolo questo merita. Dio è deluso dal modo moderno in generale e da loro in particolare. Ma la misericordia di Dio vuole dare alla città un’altra chance. La peste indica la via di una salvezza futura. Questo prete può vedere Dio in azione, trasformando realmente il male in bene. Ragionando così “giustifica” la peste e cerca di indurre il popolo ad amare le sue sofferenze.  A questo il buon dottore, che non è certo un cattolico praticante, risponde da uomo pratico, e con una buona dose di compassione cristiana: “I cristiani parlano così a volte,  senza che questo sia realmente ciò che pensano”. E aggiunge questo complimento graffiante: “Ma sono migliori di quanto non appaiono”. E aggiunge anche che il buon prete parla così perché non ha imparato che sui libri di teologia. “Per questo, dice, può parlare con tanta sicurezza della verità con la “V” maiuscola. Un qualunque prete di campagna… che  abbia sentito un uomo respirare a fatica sul suo letto di morte, la pensa come me, dice il buon dottore.  E tenta di alleviare la sofferenza umana prima di proclamarne l’eccellenza” (cito a memoria…).

 

            Di fatto il prete, dopo aver visto un bambino morire tra atroci sofferenze, alla fine arriverà anche lui a provare un po’ di questa compassione.

 

            Se torniamo ora al nostro Vangelo, non credo che abbia bisogno di un lungo commento. E’ evidente che l’atteggiamento del prete all’inizio del romanzo, con tutte le sue spiegazioni concernenti il peccato e la punizione divina, era l’atteggiamento degli Scribi e dei Farisei e, in generale, della religione ufficiale di Israele. L’atteggiamento del medico di questo romanzo è quello del Cristo, che mai, in tutto il Vangelo, dà una spiegazione della lebbra o di un’altra malattia. Tocca semplicemente il lebbroso con la mano e lo guarisce.

 

            Suppongo allora che  ciascuno di noi debba rispondere nel suo cuore alla domanda: “Da che parte sto?”.

 

 

Armand VEILLEUX  ocso