9 aprile 2000 –Vª domenica di Quaresima "B"
Jr 31,31-34; He 5,7-9; Jn 12,20-33

 

O M E L I A

           

Il testo di Geremia che abbiamo ascoltato nella prima lettura della Messa è uno dei più belli della Bibbia sulla conversione.  Prima di tutto egli la descrive non come un semplice cambiamento di comportamento, o come la sostituzione di un “ego” con un altro “ego”, ma come un cambiamento profondo del cuore. E per questo cambiamento del cuore bisogna intendere non soltanto un cuore più puro, un cuore che desidera cose migliori, bensì un cuore che sia tanto profondamente impregnato dello Spirito di Dio da desiderare spontaneamente tutto ciò che Dio stesso desidera. “ Porrò la mia Legge  nel più profondo del loro animo; la scriverò nel loro cuore… Essi non avranno più bisogno di istruirsi reciprocamente…Tutti infatti mi conosceranno, dai più piccoli ai più grandi.”

Si tratta di una obbedienza “radicale” a Dio. Radicale, perché radicale è l’obbedienza che parte dalla radice (radix)  stessa del nostro essere.

Ma come Dio realizza questo cambiamento?  Come ci insegna la sua legge? Come impariamo noi l’obbedienza? – Non vi è altra via che quella che Cristo ci ha insegnato, quella che lui stesso ha utilizzato.

La Lettera agli Ebrei ci parla delle sue preghiere “con forti grida e lacrime”, aggiungendo che “imparò…l’obbedienza  dalle cose che patì”. Non abbiamo fatto tutti l’esperienza che le cose più importanti della vita si apprendono dalla sofferenza molto più che da una vita di studio? Il testo aggiunge anche che il Cristo è divenuto una fonte di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono. Noi siamo dunque chiamati a obbedirgli, come egli stesso ha obbedito al Padre, con la stessa obbedienza radicale, cioè mediante la consegna radicale di tutto il nostro essere nelle sue mani. E come possiamo noi apprendere l’obbedienza, se non come lo ha fatto lui stesso, cioè  attraverso la sofferenza?

Per questo ci dice nel Vangelo: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo;  se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde; e chi la perde in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.”

Qual è il senso di questa piccola frase enigmatica che ritroviamo un certo numero di volte nel Vangelo (sotto forme leggermente differenti): “chi ama la sua vita la perde; chi perde la sua vita in questo mondo la salva per la vita eterna?” Salvare la propria vita significa tenere ad essa,  aggrapparvisi per paura della morte: perdere la vita vuol dire: mollare la presa, distaccarsi, accettare di morire. Il paradosso è che colui che teme la morte è già morto, mentre colui che non ha più paura della morte, ha già cominciato a vivere in pienezza. Ma perché mai qualcuno dovrebbe essere pronto a soffrire e a morire? Forse questo ha un senso? La parola-chiave qui è “compassione” (soffrire con). La cosa che Gesù voleva assolutamente eliminare era la sofferenza e la morte: la sofferenza del povero e dell’oppresso, la sofferenza dell’ammalato, la sofferenza e la morte di tutte le vittime dell’ingiustizia.  Il solo modo di distruggere la sofferenza è  di rinunciare a tutti i valori di questo mondo e di soffrirne le conseguenze. Solo l’accettazione della sofferenza può vincere nel mondo la sofferenza. La compassione può distruggere la sofferenza soffrendo con coloro che soffrono e al posto loro. Una simpatia per il povero che non fosse pronta a condividere le sue sofferenze, sarebbe una sterile emozione. Non si può avere parte alle benedizioni dei poveri, senza essere pronti a condividere le loro sofferenze. Si può dire la stessa cosa della morte.

E’ precisamente questo che Gesù ha fatto per noi. E’ ciò di cui faremo memoria nelle prossime settimane. Attingiamo nell’Eucaristia la forza di seguire i suoi passi.

 

Armand VEILLEUX