17 aprile 2003
– Giovedì Santo
Es 12, 1...14;
1 Co 11, 23-26; Gn 13, 1-15
O m e l i a
"Gesù, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amo’ fino alla
fine.” Questa frase dell’Evangelista Giovanni è una introduzione
non soltanto al racconto della Cena, ma a tutto il racconto della passione di
Gesù fino alla sua ultima parola sulla croce (19,30). Ciò che ci viene
raccontato in questi capitoli non è la « Pasqua degli Ebrei » (cf. 2,13; 6,4), bensì la Pasqua
di Gesù, il suo passaggio da questo mondo al Padre, passando per la Croce.
Ciò che ci racconta Giovanni in
questo testo, è un pasto che Gesù consuma con i suoi discepoli « prima
della festa di Pasqua ». Anche se noi tutti abbiamo presenti le immagini
di Gesù e dei suoi discepoli che riposano su divani intorno ad una tavola ben
guarnita, come per esempio nei celebri dipinti di Leonardo da Vinci o di
Rembrandt, è più verosimile che fosse un pasto preso in clandestinità da un
gruppo di uomini inseguiti, intorno al loro maestro,
che le autorità del popolo ricercavano per farlo morire. Se, nelle nostre Eucarestie, noi riviviamo
simbolicamente questa ultima cena del maestro con i
suoi discepoli, quella cena là non aveva nulla di rituale. Fu senza dubbio il
momento più intenso, ma anche il più tragico, che essi vissero insieme. Dopo si
disperderanno, prima di ritrovarsi di nuovo insieme, senza di Lui, dopo la sua
morte, per essere di nuovo uniti gli uni agli altri,
in virtù di una nuova forma della Sua presenza.
Non vi è alcuna ragione di
pensare che a questa cena partecipassero soltanto gli apostoli. Gli esegeti
sono sempre più del parere che vi partecipassero tutti i discepoli
che gli erano rimasti fedeli fino a quel momento, comprese le donne che saranno
presenti sul Calvario, e compresa, evidentemente, sua madre.
L’ultima lezione di Gesù a
tutti questi discepoli è una lezione di servizio. Vi è
certamente una dimensione di umiltà in ogni gesto di servizio ; ma non si
coglierebbe appieno il senso primario dell’azione di Gesù, vedendovi prima di tutto una
lezione di umiltà. Lavando i piedi ai
suoi discepoli, Gesù non si abbassa ; innalza loro. Conferisce a tutti loro
la qualità di « signore ». Con la sua morte, restituirà a tutti gli
esseri umani la loro piena dignità di figli di Dio, e
l’uguaglianza di tutti e tutte davanti al loro Padre. Ci insegna che la
grandezza mondana, o anche ecclesiastica o religiosa, non è un valore al quale
si possa rinunciare di
tanto in tanto in un gesto magnanimo di umiltà, ma una falsa grandezza, che si
deve rifiutare, nel riconoscersi tutti quanti ugualmente degni, gli uni come
gli altri, davanti a Dio.
Gesù non ha semplicemente
« dato la sua vita » nel senso che ha accettato di morire ; ma
ha dato la vita a tutti, condividendo con loro la sua propria vita. Cosi’, invitandoci a fare ciò che lui stesso ha fatto, non
ci invita semplicemente ad essere disposti a « dare la nostra vita »
per lui (ciò che resta una eventualità poco probabile), ma a « dare la
vita » a tutti i nostri fratelli e sorelle in umanità, lavorando perché la
dignità di tutti sia riconosciuta. Esistono dei movimenti pro-life (“per
la vita”), che si consacrano a cause eccellenti come la lotta contro l’aborto e
l’eutanasia ; ma questa lotta, per essere credibile, deve estendersi
all’abolizione della pena di morte, al non utilizzo della guerra a fini
politici o economici, e
soprattutto all’abolizione della povertà, della fame, della disoccupazione e di
tutto ciò che diminuisce la pienezza della vita umana, diminuendo la dignità
delle sue condizioni.
Le braccia di Gesù, prima
di stendersi sulla croce, e anche prima di lavare i piedi dei suoi discepoli, e
di distribuire loro il pane e il calice del vino, si sono stese a guarire i
lebbrosi, a dar da mangiare agli affamati, a manifestare affetto ai bambini piccoli
che venivano da Lui. Queste braccia si sono stese anche per perdonare ai peccatori, come si
stenderanno qualche ora più tardi a ricevere il bacio
di Giuda.
Dare la nostra vita, per quel che ci
riguarda, comincia da tutti i piccoli gesti quotidiani di dono di sé, di
generosità e di perdono, a cui la vita continuamente ci convoca.
Armand Veilleux