31 agosto 2003 – XXII  domenica "B"

Dt 4,1-2.6-8; Gc 1,17-18.21b-22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-23

 

 

O M E L I A

 

            Le tre letture della messa di oggi pongono una questione che  è di grandissima attualità ai nostri giorni: quella della relazione  tra il fare esperienza di Dio e la pratica religiosa – in altre parole, tra fede e religione.  E’ possibile un « cristianesimo senza religione » ? Che valore ha una pratica religiosa, per quanto fedele essa sia, che non si trovi radicata in una relazione personale con Dio ?

 

            Nella prima lettura Mosè, preparando il popolo ad entrare nella terra promessa, gli spiega il senso della Legge che Dio gli ha dato sul Monte Sinai.  Questo dono della Legge è un segno che Dio è vicino al suo popolo : « Quale è  quella grande nazione a  cui gli dei sono vicini tanto quanto il Signore nostro Dio è vicino a  noi ogni volta che lo invochiamo ? ». Dio ha voluto avvicinarsi  al suo popolo dandogli una regola di vita : i membri del popolo si avvicineranno a Dio vivendo secondo questa regola di vita. Questa sarà la loro saggezza e la loro intelligenza agli occhi di tutti gli uomini.

 

            San Giacomo, nella seconda lettura, ci invita ad accogliere la parola di Dio, che  Egli vuole seminare in noi, e per la quale vuole darci la vita, avendoci chiamati ad essere suoi figli. Se riceviamo questa parola e la lasciamo agire in noi, essa ci trasformerà  in veri figli e figlie di Dio nel Figlio Primogenito, e manifesteremo allora lo stesso amore e la stessa sollecitudine di Gesù nei confronti degli orfani, delle vedove e di tutti i piccoli.

 

            Passando al Vangelo di oggi, esso ci racconta  uno di quegli incontri difficili e dolorosi tra Gesù e le autorità del popolo – Farisei e Scribi – che si sono assunti il compito di coglierlo in fallo, per sbarazzarsi di lui. Gesù li tratta una volta di più da ipocriti, perché hanno finito per dare tanta importanza  alle pratiche religiose esteriori da perdere di vista la relazione tra queste pratiche e l’esperienza personale di Dio.

 

            Già nell’Antico Testamento, parecchi secoli dopo Mosè, i grandi profeti di Israele avevano denunciato la separazione tra la pratica religiosa  e l’unione con Dio - - una pratica con la quale si cercava di mettersi in pace la coscienza, senza dover praticare la giustizia e la solidarietà. (si veda per esempio Is 1, 10-18;  58, 1-12;  Am 5, 18-25;  Zacc 7, ) .  Quando i Farisei e gli Scribi rimproverano a Gesù il fatto che i suoi discepoli non si piegano alle esigenze rituali stabilite dalle loro tradizioni, Gesù può facilmente rispondere citando una di quelle invettive profetiche.

 

            L’insegnamento di Gesù in questo Vangelo si fa in tre tempi e a tre livelli differenti. Per i Farisei e gli Scribi, che non sono per nulla interessati a ricevere da lui un insegnamento, ma piuttosto a tendergli dei tranelli per condurlo alla sua fine, Gesù si accontenta di rimproverare loro la loro ipocrisia e l’errore fondamentale che li ha condotti a preferire i loro propri precetti alla legge suprema dell’amore di Dio e del prossimo. Alla folla, ancora disposta a ricevere il suo insegnamento, egli afferma la natura della vera purezza davanti a Dio.  Questa consiste nella rettitudine del cuore e non nel fatto di aver compiuto un gesto piuttosto che un altro o di averli omessi. Infine, rivolto ai discepoli, li mette in guardia. Si, essi devono guardarsi da ogni impurità – non già dalle impurità rituali di cui i Farisei e gli Scribi avevano stabilito lunghe liste, ma dalla impurità che viene da un cuore insincero, che genera cattivi comportamenti, furti, omicidi ecc. Il tutto si riassume in una formula lapidaria : ciò che rende una persona impura non è ciò che mangia, bensì ciò che viene dal suo cuore, se il suo cuore non è totalmente dato a Dio.

 

Armand VEILLEUX