17 agosto 2003 - XX
domenica del Tempo Ordinario "B"
(Prov. 9, 1-6; Ef. 5,
15-20; Gv. 6, 51-58)
Monastero di Mokoto a Keshero, Rep. Dem. del Congo
Omelia
Una delle
differenze tra un banchetto e un pasto ordinario è che ad un banchetto
normalmente si è invitati. In generale,
una persona non si presenta ad un banchetto senza aver ricevuto un invito, e
anzi, essa risponde all’invito, anche se
non può andarci. Nei Vangeli delle ultime tre domeniche abbiamo ascoltato Gesù
invitarci ad un banchetto che ha preparato per noi. Oggi, nella prima lettura,
sentiamo l’invito della Sapienza a venire ad un banchetto che anch’essa ha
preparato per noi.
Tutto questo ci ricorda una verità
fondamentale, di cui erano ben consapevoli tutti i grandi profeti e i grandi mistici: cioè che nella vita spirituale, nella nostra vita
cristiana, tutto comincia con un invito, una chiamata, una vocazione.
La vita di preghiera e l’esperienza
mistica non sono qualche cosa a cui noi possiamo
arrivare con i nostri sforzi personali. E’ una chiamata che viene di là da noi.
Questa chiamata può aver preso una forma drammatica, come nel caso di certi grandi profeti, come
Isaia e Geremia, o nel caso di Paolo, accecato da un raggio di luce sulla via
di Damasco. In altri casi non è che il brusìo di una brezza leggera, come quella in
cui Dio si manifestò ad Elia.
L’esperienza spirituale cristiana
comincia e finisce con l’esperienza di essere amati e l’invito ad amare a
nostra volta. “Amiamo - dice san Giovanni - perché (Dio) ci ha amati per primo.” Il segreto dell’energia fenomenale di un
san Paolo, di un san Bernardo o di una Santa Teresa d’Avila risiedeva nella loro convinzione di essere amati. La prima cosa nella vita di
un cristiano non è amare, ma piuttosto ricevere l’amore. Il nostro amore - che sia l’amore di Dio o
degli altri - non può essere che una risposta all’amore che Dio ha per noi. La
condizione è avere fiducia, avere fede nella persona che ci ama.
E’ anche importante considerare il contesto in cui si collocano questi discorsi di Gesù nel
Vangelo di Giovanni. Sappiamo come è costruito questo Vangelo: una serie di
segni, ciascuno seguito da un discorso. Nel capitolo 6 noi abbiamo il segno della moltiplicazione dei pani,
dopodiché la folla vuole incoronare Gesù come re; poi Gesù cammina sul lago.
Vengono quindi i due discorsi sul pane di vita, di cui uno lo abbiamo sentito
la settimana scorsa, e l’altro oggi.
Alla folla, che non capisce quello
che Lui le dice, Gesù
dichiara finalmente in modo molto chiaro:”Io sono il pane della vita”… La
volontà del Padre mio è che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la
vita eterna…” La gente mormora…Gesù dice di nuovo: “Io sono il pane disceso dal
cielo. Colui che mangia di questo pane vivrà in eterno, e il pane che io darò è
la mia carne, per la vita del mondo”…La parola “carne”, più forte di “corpo”,
mette tutto questo insegnamento nel contesto dell’Incarnazione. Il Figlio di Dio è divenuto il Figlio dell’Uomo.
In realtà, l’intero contesto è quello della fede. Il significato originale di
questo racconto concerneva la necessità di ricevere con fede il messaggio di
Gesù. Poi, nella prima trasmissione del Vangelo, il racconto fu legato all’aver
ricevuto il nutrimento eucaristico. Questo legame esistente tra i due elementi ci invita a riesaminare il nostro modo di concepire la
celebrazione eucaristica. Se noi veniamo
all’Eucarestia quotidiana un po’ come si va al distributore di benzina per fare
il pieno della macchina, l’Eucarestia diventa un semplice rito, in cui noi
pensiamo di rifare il pieno delle nostre forze ed energie spirituali. Se questo
è il nostro atteggiamento, non dobbiamo sorprenderci se, dopo molti anni di
questa pratica, noi ci ritroviamo sempre allo stesso punto nel nostro cammino spirituale.
Se invece noi incontriamo Cristo
ogni giorno in una relazione di fede, di preghiera contemplativa e di carità
attiva nei confronti dei nostri fratelli e sorelle, allora si, l’Eucaristia
sarà un’espressione sacramentale di questa fede e di questo amore,
e li nutrirà entrambi.
Armand Veilleux