3 marzo 2002 – Capitolo alla comunità di Scourmont
L’obbedienza reciproca (RB 71)
All’inizio della sua Regola Benedetto
aveva detto di scriverla per coloro che volevano “tornare a Dio con la
fatica dell’obbedienza” (Prol. 2-3) e al capitolo 5 (v.2) aveva detto
che questa è propria di coloro “che niente hanno di più caro di Cristo”.
Questa obbedienza - che è sempre una obbedienza a Dio, ma che utilizza diverse
mediazioni - non è soltanto dovuta a coloro che esercitano in diversi modi
l’autorità come servizio in comunità. Secondo Benedetto questa obbedienza
a Dio, questa “buona cosa che è l’obbedienza”
(oboedientiae bonum) si esercita ugualmente quando i fratelli
si obbediscono a vicenda, sapendo che è ben per questa via dell’obbedienza
che andranno a Dio. Il Capitolo 71 della Regola, intitolato precisamente “L’obbedienza
reciproca” è la più bella espressione del senso profondamente comunitario
di Benedetto.
Questa obbedienza non consiste tanto
nell’eseguire ordini o comandi, ma prima di tutto in un profondo rispetto
dell’altro. E’ questa la ragione per cui Benedetto, sempre coerente con se
stesso, dice che i più giovani obbediranno ai più anziani di loro, essendo
ben inteso che si tratta dell’anzianità corrispondente all’ordine di entrata
in comunità e non di quella corrispondente all’età. Così tutti, salvo l’ultimo
entrato in comunità hanno qualcuno più
giovane di loro e altri più anziani di loro.
Questa obbedienza reciproca non si
fa necessariamente senza urti né tensioni. Per questo, dopo i primi cinque
versetti che trattano di questa obbedienza, annunciata nel titolo del capitolo,
i quattro versetti successivi trattano dell’atteggiamento da tenere quando
l’anziano fa un rimprovero o quando è lui stesso ad essere alterato. In questo
caso, colui che riceve il rimprovero o la correzione fa espiazione gettandosi
ai piedi dell’anziano fino a che costui, per il fatto di pronunciare una benedizione,
se ne trova risanato. E in realtà è il turbamento – la commotio – dell’anziano che ha bisogno di
essere risanato (usque dum benedictione sanetur illa commotio) [ fino a quando con la benedizione non sia
passato lo sdegno (RB 71,8)].
Questo testo è bellissimo. Se lo si
legge superficialmente e rapidamente, si ha l’impressione che si tratti semplicemente
di un esercizio di potere e di autorità da parte dell’anziano e di un gesto
di umiliazione da parte del più giovane. In realtà si tratta veramente di
un rapporto interpersonale, e quando l’anziano è turbato (commotus),
che lo sia per la collera, l’indignazione o la sorpresa, è l’atteggiamento
rispettoso del più giovane tanto quanto la sua stessa preghiera di benedizione
a rasserenarlo.
Se veniamo al monastero è per convertirci,
per lasciarci gradualmente trasformare a immagine di Cristo, per scoprire
la sua volontà e conformare la nostra alla sua. Riuniti in comunità dalla
chiamata di Cristo, ci incoraggiamo e ci aiutiamo a vicenda in questo cammino.
Questa vita in comune, giorno dopo giorno, anno dopo anno, non è possibile
e “vivibile” che se vi è tra di noi un grande rispetto. Questo rispetto non
si limita alle buone maniere, anche se queste hanno tutta la loro importanza.
Questo rispetto implica l’attenzione alla volontà dell’altro e l’attenzione
ai suoi desideri. (Cf. Phil. 2, 4-5 : Che ciascuno guardi non soltanto
a se stesso, ma anche agli altri. Comportatevi tra di voi con i sentimenti
che furono anche in Cristo Gesù). E’ questa la natura profonda dell’obbedienza, a tutti
i livelli: comunione delle volontà e incontro dei desideri. In una simile
relazione, urti e frizioni sono non solo possibili ma inevitabili. L’amore fraterno richiede il rispetto non soltanto
dell’altro, ma delle sue reazioni, comprese le sue reazioni violente. Questo
rispetto, che è un’altra forma di obbedienza, è non soltanto un gesto di umiltà
e di comunione, ma possiede una dimensione terapeutica.
Una comunità vera è sempre, in una
certa misura, una comunità terapeutica.
Armand VEILLEUX
Traduzione di
Anna BOZZO