26 agosto 2001

Capitolo alla Comunità di Scourmont

 

 

Il corredo dei monaci (RB 55)

 

            Il capitolo 55 della Regola è un altro di quei capitoli che presentano dettagli concreti talmente legati a un contesto culturale lontano dal nostro, che sarebbe ridicolo voler commentarli  ad uno ad uno, e ancor meno [sensato sarebbe] applicarli oggi tali e quali. Ciò che colpisce è la preoccupazione fondamentale di Benedetto che è una preoccupazione di povertà e di semplicità.

 

            La prima cosa su cui Benedetto insiste è la semplicità. Certo, si provvederà a che gli abiti corrispondano al clima, poiché il loro scopo principale è quello di proteggere il corpo – saranno più pesanti per l’inverno e più leggeri per l’estate. Dovranno anche essere della taglia adatta alla persona (quando sono entrato in noviziato, il monaco incaricato del “guardaroba” mi ha detto che potevo scegliere tra due misure: troppo piccola o troppo grande…). Ma, a parte questo, dice Benedetto, i fratelli non si preoccuperanno del colore o della “qualità ordinaria” degli abiti; prenderanno ciò che possono acquistare a buon prezzo nella regione in cui abitano.

 

            La seconda cosa importante per Benedetto è evitare lo spirito di accumulazione. E’ facile accumulare le paia di calzini, le camicie o le mutande!…Certi monaci possono accumularle come Imelda Marcos accumulava le paia di scarpe! Si tratta certo di una sorta di compensazione per tutte le cose più importanti a cui si è rinunciato. Da buon psicologo, Benedetto ricorda all’Abate l’obbligo di vegliare a che tutti abbiano ciò di cui hanno bisogno, per evitare il pretesto di accumulare cose in previsione che possano mancare.

 

            Benedetto non si fa sfuggire l’occasione di fare qui ancora una volta allusione al “comunismo integrale” della prima Comunità cristiana di Gerusalemme, in cui tutto era in comune, ma dove ogni cosa era distribuita secondo i bisogni di ciascuno. L’uguaglianza non consiste nel fatto che tutti abbiano esattamente la stessa cosa, ma nel fatto che ciascuno abbia esattamente quello di cui ha bisogno. E i bisogni di cui occorre tener conto sono tanto di ordine psicologico che fisico.

 

            Si cercherebbe invano nella Regola una mistica dell’abito monastico, come se il fatto di vestirsi in maniera diversa dal resto dei mortali avesse un significato spirituale. La descrizione che Benedetto dà degli elementi dell’abito dei monaci del suo monastero mostrano bene che quest’abito non era diverso da quello che portavano le persone normali del suo tempo. La “cocolla” di cui parla non è certo l’abito corale che noi conosciamo.

 

            Se ci si preoccupa di avere vestiti semplici, tagliati nel tessuto che si può trovare a buon mercato nella regione, è quasi inevitabile che si arrivi ad avere per tutti i monaci di una comunità degli abiti all’incirca identici. E’ certamente così che si è sviluppata abbastanza presto una forma d’abito più o meno proprio ai monaci e che si chiama “abito monastico”. In una cristianità medievale questo “abito” ha potuto acquisire per un periodo un certo valore di “segno”, ricordando ai fedeli che vedevano i monaci o le monache i valori spirituali che questi o queste si impegnavano a vivere. Ai nostri giorni, anche se un certo numero di ragioni possono ancora essere avanzate a sostegno del mantenimento di un abito distinto, questo non ha più e non ha affatto il valore di “segno” nelle nostre culture contemporanee. Si tratta piuttosto di un mezzo di identificazione.  Certe comunità monastiche hanno optato per l’utilizzo di vestiti ordinari nella vita di tutti i giorni, utilizzando la cocolla come abito monastico durante la liturgia. Questo mi sembra assolutamente legittimo e anche conforme allo spirito della Regola.  La sola cosa che trovo personalmente un po’ comica è la tendenza a voler restituire a dei vestiti ordinari (del resto in genere molto sobri) un aspetto “monastico” aggiungendovi un cappuccio! La mia tendenza personale sarebbe piuttosto: o portare l’abito medievale tradizionale che portiamo attualmente, e al quale si dà la qualifica di “monastico” e che ci identifica chiaramente come monaci cistercensi o benedettini, oppure vestirsi come tutti gli altri, avendo cura della semplicità.

 

            Per i viaggi, Benedetto prevede già che si portino abiti di una qualità un po’ migliore, e che poi si devono rendere al guardaroba al ritorno.  Si tratta di un atteggiamento di rispetto per le persone in mezzo alle quali si andrà. Certi monaci preferiscono viaggiare con il loro abito “monastico”, altri preferiscono vestiti “come la gente normale”; altri preferiscono una tenuta borghese leggermente adattata al costume “monastico”. Vi sono buone ragioni per ognuna di queste opzioni e sarebbe puerile discuterne. Una cosa è certa: ciò che è importante per Benedetto, in questo campo come in molti altri, non è il fatto di “segnalarsi all’attenzione come monaci” o semplicemente di “farsi riconoscere come diversi”, ma semplicemente di praticare la più grande semplicità e la più grande povertà possibile, tenendo conto del contesto sociale come di quello climatico.

 

Armand VEILLEUX