24 giugno 2001 – Capitolo
alla Comunità di Scourmont
La preghiera comune a distanza
(RB 50)
Quando andai in visita
dai nostri fratelli di N.-D. d'Atlas,
a Tibhirine, poco tempo prima del loro rapimento e della loro morte che ne
seguì, mi assicurarono che quello che aveva permesso loro di continuare a
vivere in grande serenità, nel mezzo di situazioni pericolose e perfino drammatiche,
era il fatto di aver sempre continuato ad essere fedeli al ritmo normale della
loro vita monastica. Possiamo trovare
in tutto questo un insegnamento e un incoraggiamento anche per noi. Nel momento
in cui il Signore ci sconvolge con la morte
inattesa di fratello Gabriel, e i seri problemi di salute di altri membri della nostra comunità, è proprio
continuando ad essere fedeli alle esigenze della nostra vita monastica di
tutti i giorni, in tutti i suoi aspetti ordinari, che potremo conservare la nostra pace. Per questo, riprendo tranquillamente il mio
commento della Regola di San Benedetto, là dove eravamo arrivati. Eravamo dunque al capitolo 50, intitolato nelle
edizioni attuali: “I fratelli che lavorano lontano dall’oratorio o sono in
viaggio”. E’ il primo di un piccolo gruppo di tre capitoli in cui Benedetto
parla di nuovo della preghiera.
In questo capitolo 50
egli afferma che i fratelli che lavorano troppo lontano dal monastero per
ritornare all’oratorio in tempo per la liturgia delle Ore del giorno, celebreranno
queste Ore sul luogo di lavoro, “in ginocchio e pieni di timore di Dio”. Così
pure, coloro che sono in viaggio, celebreranno le Ore dell’Ufficio “meglio
che possono, per conto proprio, e non trascurino di offrire l’obbligo del
loro servizio al Signore”.
Non bisogna evidentemente
interpretare quest’ultima espressione (l’obbligo del loro servizio – pensum servitutis) in modo
anacronistico, come se Benedetto avesse avuto, nel sesto secolo, la concezione
sviluppata successivamente, nel corso del Medioevo, sopravvissuta fino al
Vaticano II, secondo la quale i monaci (ed altri religiosi e chierici) avrebbero
una delega speciale per recitare l’Ufficio divino in nome della Chiesa, e
che quest’obbligo sarebbe una sorta di pensum che debbono eseguire a qualunque costo.
Ciò che qui appare in
Benedetto è prima di tutto il suo profondo senso comunitario. L’ideale del
monaco, sia che egli lavori lontano dal monastero, o che sia in viaggio, resta
sempre la preghiera continua verso la quale deve tendere per tutta la vita.
In un contesto di vita in comune (cenobitica), questa preghiera continua del
monaco è ritmata, ogni giorno, da un numero importante di momenti di preghiera
in comune con tutti gli altri fratelli della comunità. La volontà di Benedetto
è che questa dimensione comunitaria non manchi a quei fratelli che hanno un
lavoro che impedisce loro di tornare in chiesa in tempo per la preghiera comune.Li
invita allora ad unirsi alla preghiera della
comunità, anche a distanza, celebrando le Ore sul luogo stesso di lavoro.
Vuole che sia non soltanto un’unione mentale, ma una vera celebrazione simultanea,
che implica l’interruzione momentanea del lavoro, e che i fratelli adottino
un atteggiamento di preghiera anche fisico, mettendosi in ginocchio. Le nostre
Costituzioni attuali ci chiedono ancora di recitare per conto nostro le Ore
alle quali non abbiamo potuto partecipare in Coro. Non è da vedere in questo
un semplice obbligo giuridico di “recuperare” i nostri uffici mancati, bensì
il richiamo a vivere la nostra vita di preghiera in comunione con la nostra
comunità, e questa recita privata dell’ufficio è un modo di unirci concretamente
ai nostri fratelli, anche se non nello stesso momento e nello stesso luogo.
L’espressione "pensum
servitutis" che utilizza san Benedetto e che le traduzioni rendono
generalmente con “compito obbligatorio”, o qualcosa di simile, significa per noi non un "pensum"
nel senso moderno del termine, un obbligo giuridico un po’ oneroso e noioso,
ma piuttosto un servizio di lode, che esprime la consacrazione totale della
vita del monaco a Dio: una consacrazione accettata liberamente per amore e
condivisa con tutti gli altri fratelli della comunità. Questa espressione
(o il suo equivalente) ritorna nella Regola un certo numero di volte. In certi
casi designa in modo specifico l’Ufficio
divino (cfr. RB 16,3 : nostrae servitutis officia o ancora RB 18,24: devotionis suae servitutis). In altri casi designa l’insieme della vita
monastica, come è il caso in RB 2,20 servitutis militia o ancora
in RB 49,5, sulla quaresima, in cui Benedetto domanda di aggiungere qualcosa
al nostro "pensum servitutis."
Quando
non possiamo essere presenti all’Ufficio divino nel Coro, sia perché siamo
trattenuti da un compito al servizio della comunità, sia perché siamo trattenuti
in camera dalla malattia o dalla stanchezza, o ancora perché siamo in viaggio
al servizio della comunità, sforziamoci non soltanto di restare fedeli alla
nostra vocazione di preghiera continua, ma anche alla nostra solidarietà nei
confronti della comunità. Per questo è bene, se ci è possibile, di unirci
alla preghiera della comunità riunita nel Coro, non soltanto con il pensiero
e con il cuore, ma pregando nello stesso momento, compreso il fatto di accompagnare
la nostra preghiera intima con atteggiamenti fisici di preghiera, che situano
nel tempo e nello spazio la nostra relazione personale con Dio.
Armand VEILLEUX
(traduzione di Anna Bozzo)