18 marzo 2001 – Capitolo alla Comunità di Scourmont

 

 

La misura del cibo e del bere (RB39 e 40)

e l'orario dei pasti (RB41)

 

 

L’ultimo capitolo della Regola che abbiamo commentato (RB 38) parlava della lettura durante i pasti. Seguono in tutta logica due capitoli sulla misura nel mangiare e nel bere  (RB 39 e 40) e un altro sull’orario dei pasti (RB41). Già i titoli sono significativi. (Si sa che i titoli non sono da attribuirsi a Bendetto, ma sono stati aggiunti dagli editori; ma, almeno in questo caso, corrispondono bene al contenuto dei capitoli). E in realtà, così come Benedetto si preoccupa della misura nel parlare più che del silenzio, allo stesso modo in questi capitoli ciò che lo interessa maggiormente non è una sorta di idea o di ideale del digiuno, bensì la misura nel mangiare e nel bere. Si ritrova sempre la famosa discretio benedettina.

 

E quando Benedetto parla di misura, in questo come in tutti gli altri campi, non intende una sorta di unità di misura, o di quantità oggettiva a cui tutti sarebbero tenuti a conformarsi ciecamente. Per lui si tratta piuttosto di misura in senso attivo, dell’atto di misurare, di pesare, di equilibrare un’azione, tenendo conto, da una parte, di valori oggettivi da rispettare, e, d’altra parte, delle circostanze di tempo, di luogo e di persone. La frase che spiega meglio la grande umiltà con cui affronta questa questione, è il secondo versetto del capitolo 40: “…e quindi stabiliamo con un certo scrupolo la misura del vitto altrui.” In questi tre capitoli Bendetto non fa altro che confrontare una tradizione ricevuta, che gli viene dai primi secoli del Cristianesimo e anche al di là, con il contesto in cui vive, che è quello del sesto secolo, commisurandola alle persone per cui scrive, che provengono da quei popoli che i Romani chiamano barbari e che stanno creando una nuova civiltà.

 

L’astinenza volontaria da certi alimenti, soprattutto in certi periodi dell’anno, è tanto antica quanto il Cristianesimo. Già i filosofi dell’epoca pre-cristiana avevano scoperto che la temperanza, e in certi casi l’astinenza da certi cibi, in particolare dalla carne, concorreva a mantenere un equilibrio generale della persona, che a sua volta consentiva di non essere dominati dalle passioni sessuali o d’altro genere, e manteneva lo spirito più libero per la contemplazione del vero.  A questi motivi si aggiunse tra i primi Cristiani, la cura di evitare i cibi rari e dispendiosi, per avere più cibo da spartire. Diversi Padri della Chiesa parlano della quaresima come di un tempo in cui ci si astiene dal cibo per darne a quelli che non ne hanno.

 

Benedetto non fa una teologia del digiuno; ma questi pochi precetti pratici che egli dà, mostrano che è prima di tutto preoccupato delle motivazioni e delle disposizioni spirituali. In ciò che concerne il cibo, egli fa precedere alcune indicazioni pratiche, ma con una prudenza che rasenta l’esitazione: per il pasto quotidiano ad esempio dice “pensiamo” che siano sufficienti due pietanze cotte, così chi non potrà mangiare dell’una potrà mangiare dell’altra, e poi suggerisce di aggiungere un terzo piatto di frutta o di legumi freschi, a cui si aggiunge la libbra di pane. E se il lavoro è stato più faticoso, si può aggiungere, a giudizio dell’abate, ancora qualcosa.  Ma ciò che conta prima di tutto – ed è questa l’indicazione fondamentale del capitolo -  è che bisogna evitare ogni “eccesso”, poiché “niente è così contrario ad ogni buon cristiano”. Non si tratta dunque di penitenze speciali proprie ai monaci, ma di conservare la misura che conviene ad ogni cristiano, secondo la raccomandazione del Signore: “Badate bene, non lasciate appesantire dall’eccesso il vostro cuore”.

 

Lo stesso atteggiamento si ritrova nel capitolo sulla misura del bere. Benedetto dice, con un tono che si potrebbe credere disincantato, ma che io considero invece un po’ umoristico: “il vino non conviene affatto ai monaci, ma poiché ai monaci dei nostri tempi non è possibile farlo capire, facciamo almeno attenzione a  non bere fino alla sazietà e tanto meno all’ebbrezza, tenendo conto ancora una volta delle condizioni del luogo, del lavoro, del caldo estivo, ecc. Egli propone una certa quantità, l’emina (a cui gli specialisti hanno consacrato molto tempo ed energie per stabilirne la misura precisa, circa un quartino), ma raccomanda di non mormorare se non è possibile procurarsi questa quantità. Perché prima di tutto, dice,  - ed è così che anche questo capitolo termina con una raccomandazione che concerne l’atteggiamento del cuore – prima di tutto ci si astenga dalla mormorazione, perché nulla è più estraneo alla vita comunitaria.

 

Così dunque Benedetto osa, con una certa esitazione, enumerare certe norme, ma lui stesso le subordina alla purezza delle intenzioni e alla qualità della vita comunitaria.

 

Quanto all’ora dei pasti, l’atteggiamento di Benedetto è abbastanza simile a quello che San Pacomio spiegò un giorno al suo discepolo Teodoro. Quest’ultimo voleva sapere del digiuno di Pasqua, cioè quello che noi chiamiamo della Settimana Santa. La pratica differiva dall’una all’altra delle Chiese locali, e da un ambiente monastico all’altro. La legge generale della Chiesa   era di digiunare in modo assoluto, senza mangiare nulla, il venerdì e il sabato santo, rompendo il digiuno nel pasto eucaristico della Veglia Pasquale. Ma in certi luoghi si era sviluppata l’abitudine di restare tre o quattro giorni, e perfino tutta la Settimana Santa, senza mangiare. Teodoro domanda a Pacomio qual è il comportamento migliore. Questi risponde che è preferibile attenersi alla norma della Chiesa (digiunare soltanto il venerdì e il sabato), al fine di preservare le forze necessarie per compiere ciò che è prescritto nel Vangelo: “la preghiera continua, le veglie, la recitazione della Parola di Dio e il lavoro manuale che ci permette di aiutare i poveri”.  In uno spirito simile Benedetto descrive l’uso del suo tempo concernente le ore dei pasti, che variano a seconda dei periodi dell’anno e delle stagioni liturgiche, ma raccomanda all’Abate di “disporre ogni cosa in modo tale che i fratelli si salvino l’anima e lavorino senza avere motivi di mormorazione”.

 

Si era ben lontani da questo spirito all’epoca in cui le diverse Congregazioni e Osservanze cistercensi questionavano sul modo di digiunare e sull’orario dei pasti!… La Regola di Benedetto non ha niente di meno esigente, ma ci propone una relazione ben altrimenti equilibrata tra la pratica e le disposizioni interiori.

 

Armand VEILLEUX

 

traduzione di Anna Bozzo