Site du Père Abbé
Armand Veilleux

11 febbraio 2001 - Capitolo alla comunità di Scourmont

Invecchiare bene (cf. RB 37)

Dopo aver parlato delle cure da prestare ai fratelli malati (RB 36), Benedetto introduce un breve capitolo di tre versetti su "I vecchi e i fanciulli". Vi è detto semplicemente che a questi due gruppi di persone non verranno applicati tutti i rigori della Regola, specialmente in ciò che riguarda le ore dei pasti, perché siamo naturalmente inclini all'indulgenza nei confronti di queste due età della vita.

Per ciò che riguarda "i fanciulli" questo capitolo della Regola non ha più molto interesse, dato che il fatto di permettere a dei genitori di portare in monastero il loro figlio in tenera età, pratica ancora in vigore al tempo di Benedetto, non esiste più da molto tempo. (Occorre tuttavia notare che quelli che Benedetto chiama "fanciulli" avevano probabilmente nella maggior parte dei casi un'età per cui oggi si definirebbero "adolescenti" o anche "giovani".)

Invece ciò che Benedetto dice dei vecchi è diventato molto "attuale" ai giorni nostri, almeno nei nostri monasteri d'Europa e d'America del Nord, dove la percentuale delle persone anziane è molto più elevata di un tempo. Questo fenomeno è dovuto innanzitutto, da un secolo a questa parte, ad un considerevole allungamento della vita umana. La speranza di vita, che per diversi secoli si era mantenuta intorno ai 39 anni, è rapidamente passata a più di 80 anni nelle nostre società industrializzate, in particolare dopo la scoperta di Pasteur e i conseguenti sviluppi della medicina. A ciò bisogna aggiungere, in queste stesse società industrializzate, il fenomeno generale della denatalità, fenomeno che è andato ad aggiungersi a molte altre cause per ridurre drasticamente il numero degli ingressi nella maggior parte dei monasteri.

Le persone delle nostre comunità che hanno tra i 70 e i 100 anni sono entrate nelle epoche di grande afflusso di vocazioni, mentre oggi le nuove vocazioni si fanno rare; così l'età media è improvvisamente diventata molto elevata. Spesso allora si parla di "comunità che invecchiano". Ma questa espressione è molto ambigua. In effetti, così come una persona molto anziana può restare giovanissima di cuore,mentre un'altra ancora giovane sembra essere nata vecchia, allo stesso modo una comunità può essere rimasta giovane anche se l'età media dei suoi membri è molto avanzata, così come un'altra può essere "in via di invecchiamento", pur contando molte persone la cui ètà biologica è ancora giovane.

La vecchiaia non è un male, è una benedizione. E' dunque importante per noi tutti, sia come persone che come comunità, invecchiare bene, e perfino invecchiare in bellezza! Invecchiare in bellezza è fare in modo che, via via che le nostre forze fisiche diminuiscono, il nostro spirito si immerge nelle realtà eterne. E' l'età della vita in cui sempre più si "propende verso l'alto".

La giovinezza è piena di sogni, di progetti. Tutte le strade sono ancora aperte. Con l'inizio dell'età adulta bisogna fare delle scelte che chiudono la maggior parte di queste strade e ci inducono a concentrare tutte le nostre energie e tutto il nostro cuore su un progetto di vita. Ma anche all'interno di un progetto di vita (che sia la vita monastica, o il matrimonio, o altro) vi è ancora posto per molti imprevisti, molte aspirazioni e perfino ambizioni. Gradualmente, via via che si progredisce con l'età, gli orizzonti temporali si fanno più prossimi, lo spettro delle possibilità si restringe. E' allora che possiamo rinchiuderci in una sorta di nostalgia, o aprirci alla serenità che ci procura la prospettiva di camminare sempre di più in linea retta, senza deviazioni e senza distrazione, verso l'incontro che ci trasforma.

Una lunga vecchiaia, malgrado i mali fisici che possono accompagnarla, è una benedizione, perché permette di fare lentamente e progressivamente questo lavoro di distacco da sé, di pacificazione, di concentrazione sull'essenziale.

Nel monachesimo primitivo si usava il termine di "anziano". L'anziano non era necessariamente un vecchio; ma, a meno di non avere una grazia tutta speciale, non si diventava anziani se non dopo un lungo cammino sulle vie dell'ascesi e della preghiera. Colui che veniva chiamato "anziano" era precisamente uno la cui vita si era progressivamente unificata, uno che era diventato un uomo di comunione, perché, da una parte non c'era più nulla quaggiù per cui considerasse importante lottare o entrare in competizione con altri; e d'altra parte era tutto preso da un solo amore, da una sola attesa. Era a tal punto trasformato dallo Spirito di Cristo, da poter far nascere il Cristo in coloro che lo avvicinavano, ed è per questo che lo chiamavano "padre spirituale".

Per molto tempo. Nel corso degli ultimi secoli, il modello "normale" di comunità monastica era quello in cui tutte le età della vita sono all'incirca rappresentate nella stessa misura. (Questo modello è del resto piuttosto recente, perché attraverso tutto il Medio Evo, ed perfino per tutto il XIX secolo, anche se certe persone vivevano fino ad un'età avanzata, la maggior parte moriva prima dei 40 anni o in ogni caso prima dei 50). In seguito abbiamo avuto un'ondata di fondazioni monastiche con comunità talvolta anche molto numerose, praticamente senza "anziani", e una età media molto bassa. Ma poi ci siamo detti che questo problema si risolverebbe da sé col tempo. Oggi nel nostro Ordine abbiamo, accanto a comunità molto giovani, nelle nuove Chiese, numerose comunità, come la nostra, in cui l'età media è molto alta. Indipendentemente dalle questioni pratiche di organizzazione materiale, e senza mettere in conto la questione del reclutamento (che in definitiva dipende da Dio), una comunità composta quasi unicamente di giovani così come una comunità composta quasi solamente di anziani, possono essere altrettanto sane di comunità in cui tutti le fasce di età sono ugualmente rappresentate. L'importante è di non vivere nella nostalgia di un modello antico e di non tentare di applicare quel modello che non conviene, o non conviene più.

Una comunità di anziani dovrebbe essere normalmente un luogo di crescita straordinaria. In effetti la crescita spirituale deve normalmente intensificarsi, via via che diminuiscono le forze fisiche e via via che rallenta il ritmo delle attività. E tutti possono esercitare, gli uni nei confronti degli altri, questa paternità spirituale che consiste nell'aiutare l'altro a crescere in Cristo. Una tale comunità può anche evidentemente esercitare, in quanto comunità, una paternità spirituale nei confronti di coloro che vengono al monastero, anche soltanto di passaggio (anche indipendentemente dalla "direzione spirituale" che alcuni possono essere chiamati a esercitare).

Il desiderio di trasmettere ad una nuova generazione la vocazione che abbiamo ricevuta è legittimo, ma è importante che restiamo aperti ai segni dei tempi, pronti ad adattare noi stessi per rendere possibile questa trasmissione, se Dio vuole che si realizzi. Ma questa non deve diventare una preoccupazione che ci impedisca di invecchiare in bellezza. La storia passata è piena di sorprese, almeno quanto è piena di insegnamenti. Nel monachesimo primitivo i giovani - come i meno giovani - andavano in folla verso gli "anziani", dalla cui vita traspariva raggiante la presenza dello Spirito. In altre epoche i giovani hanno seguito in massa capi carismatici, per lo più essi stessi molto giovani. Nessun modello deve essere canonizzato come la norma. Ai giorni nostri vi sono comunità molto giovani, che hanno talvolta l'aspetto di clans di boy scouts. Benediciamo Dio per la loro vitalità. Vi sono poi comunità di "anziani", che saranno capaci di ricevere discepoli e di formarli, proprio nella misura in cui i loro membri saranno non soltanto dei vecchi, ma dei veri "anziani", sempre più liberati dalle loro ambizioni, dai loro rimpianti, dai loro progetti e sempre più trasformati dalla luce dell'unica novità che conta.

Il nostro avvenire - quello della nostra comunità come quello di ciascuno di noi - è nelle mani di Dio. Perché si realizzi, è assolutamente necessario che accettiamo di invecchiare in bellezza.

Armand VEILLEUX

(traduzione di Anna Bozzo)