4 febbraio 2001 – capitolo alla comunità di Scourmont

 

La cura dei fratelli ammalati (RB 36)

 

         Il tema dell’alimentazione induce Benedetto a parlare dei fratelli ammalati.Tutto il contenuto e tutto l’orientamento di questo capitolo sono ottimamente riassunti nei primi versetti:

La cura degli ammalati deve avere la precedenza su tutto: saranno serviti veramente come si serve Cristo, perché egli ha detto: “Ero ammalato e siete venuti a curarmi” e: “Tutte le volte che avete fatto ciò ad uno di questi piccoli, lo avete fatto a me”.

 

         Come sempre Benedetto è molto concreto: Non parla della malattia: Si preoccupa del malato. E sa che il malato è uno di quei “piccoli” con cui Gesù si è identificato, in particolare nel capitolo 25 di Matteo: “Ero ammalato…”

 

         Nella regola di san Benedetto, non vi è, non meno che nel Vangelo, culto della sofferenza per la sofferenza. Ogni volta che Gesù ha incontrato la sofferenza, ha fatto di tutto per alleviarla. Per questo Benedetto, fedele a tutta la grande tradizione monastica, vuole che si presti la più grande cura a chi soffre per la malattia. Così, le esigenze della regola comune saranno meno rigide per gli ammalati: Avranno una cella a parte, e non saranno obbligati all’astinenza dalle carni. L’economo e i fratelli che servono a tavola avranno per loro uno speciale riguardo; e sarà l’abate che in ultima analisi sarà responsabile nel fare in modo che tutte queste attenzioni siano loro prestate.

 

         Benedetto conosce tutto ciò che la malattia può produrre in una persona. E in effetti non è assolutamente possibile prevedere come uno reagisce quando lo coglie la malattia. La persona più forte può essere presa da smarrimento e la persona debole può accettare la prova con grande coraggio. Così Benedetto, nel dare la sua lista di consigli, prevede tutte le situazioni.

 

         Prima di tutto il malato, che è oggetto di molta attenzione, non deve dimenticare che, se viene servito in questo modo, è perché incarna in qualche modo il Cristo, ed eviterà dunque di assillare gli altri  con esigenze impossibili. D’altro canto, se egli è esigente, lo si sopporterà con pazienza e comprensione.

 

         Noi ci dobbiamo confrontare qui con il problema della sofferenza in una delle sue forme più esigenti. Una sofferenza, anche molto intensa, causata per esempio da una ferita che prevediamo guarirà in un tempo più o meno lungo, si sopporta ancora abbastanza facilmente. Ma quando una malattia, soprattutto una malattia grave, viene a renderci consapevoli dei nostri limiti umani e della nostra finitezza, la sofferenza si colloca ad un livello più profondo. Bisogna prima di tutto accettarla, cosa che il più delle volte non si farà senza lotta, una lotta simile a quella di Giacobbe; e bisogna lasciare al malato il tempo di condurre questa battaglia con i ritmi che sono i suoi.

 

         Vi è nella parola “sofferenza” molta dignità. Sofferenza, dal latino sufferire  comporta la radice ferre, portare, e il prefisso sub.  Uno soffre, nel senso profondo e positivo della parola, quando porta il suo fardello. La sofferenza è dunque molto diversa dall’afflizione, e ancor più dalla depressione – parole che indicano il fatto di essere colpiti (fligere) o schiacciati (premere). La sofferenza redentrice, all’immagine di quella di Cristo,  è quella che è portata coraggiosamente, e non quella che schiaccia e deprime.

 

         Ma quando la malattia colpisce, soprattutto se colpisce in modo subdolo e imprevisto, spesso occorre un certo tempo prima di essere riconciliati con tutto quanto ci porta in fatto di coscienza del nostro carattere di finitezza temporale. Per questo Benedetto prevede, senza farne un problema, che il malato potrebbe forse essere esigente, e che in tal caso si dovrà sopportarlo con carità, perché egli continua nondimeno ad essere per i sani una presenza del Cristo.

 

         Vi fu un tempo (nel XVII secolo in particolare), in cui si credeva di essere tanto più generosi quanto più si cercava la sofferenza. Questa deviazione della spiritualità era senza dubbio la conseguenza di una deviazione della cristologia, e sembra che abbia generato parecchie nevrosi.  Oggi la tentazione sarebbe piuttosto l’inverso, quella di fuggire ogni forma di sofferenza, sia essa di ordine spirituale, psicologico o fisico. E questa fuga dalla sofferenza è altrettanto generatrice di nevrosi. L’uno e l’altro eccesso sono l’opposto della umiltà sulla quale Benedetto fonda la sua spiritualità. Per la persona veramente umile, l’umiliazione non esiste. Questa persona non si sente umiliata per il fatto di avere perduto una piccola o una grande parte delle sue capacità fisiche o anche psichiche; e del resto si accetta così com’è ad ogni istante della vita, e non prova il bisogno orgoglioso di umiliarsi diminuendosi fisicamente con delle sofferenze artificiali.

 

         Nel capitolo successivo Benedetto parlerà dell’età avanzata. Qui parla della malattia da cui normalmente si guarisce e, come Cristo,  vuole che si metta in azione di tutto perché guarisca. E la prima cura su cui insiste è l’amore compassionevole (compatire= soffrire con) di tutti i fratelli nei riguardi del malato.

 

         Non si può certo rimproverare ad uno come l’Abate di Rancé  di essere stato profondamente un uomo del suoi tempo nella sua spiritualità. Ma quale differenza tra il suo atteggiamento nei confronti della sofferenza – che infliggeva facilmente con penitenze corporali -  e quella di Benedetto!

 

Armand VEILLEUX

 

(traduzione di Anna Bozzo)