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Armand Veilleux

5 novembre 2000 – Capitolo alla Comunità di Scourmont

 

La condivisione della responsabilità pastorale dell'abate.

Capitolo della Regola sui decani (RB 21)  

21. I  DECANI  DEL  MONASTERO

1 Se la comunità è numerosa, si scelgano tra i monaci alcuni fratelli riconosciuti di buona reputazione e di santa vita

2 e si costituiscano decani.  Abbiano cura in ogni cosa  delle loro decanìe, secondo i comandamenti di Dio e gli ordini del proprio abate.

3 Come decani siano scelti quelli  con i quali l’abate possa tranquillamente  condividere il peso della sua carica.

 4 E non siano eletti  secondo la data del loro arrivo in monastero, ma secondo il merito della  vita e la saggezza del loro insegnamento.

5 Se per caso, qualcuno di questi decani si insuperbisce e merita   riprensione, lo si correggerà una, due, tre volte. Se non si vorrà emendare, venga dimesso, gli verrà tolta la responsabilità,

6 e si metterà al suo posto un fratello dotato delle qualità necessarie.

7 Lo stesso stabiliamo per  il Priore, il secondo del monastero (cap. 65).

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

        

Nel capitolo secondo della Regola, Benedetto attribuisce una grande responsabilità pastorale all’abate sulla sua comunità, come padre, maestro e medico dei suoi fratelli. Ce ne sarebbe di che spaventare totalmente  chiunque riceve questa carica  con una certa coscienza delle esigenze che comporta, se Benedetto non prevedesse, per tutta la Regola, numerosi collaboratori dell’abate nell’esercizio delle sue responsabilità.

Oltre tutti coloro che hanno una responsabilità in un campo ben determinato, come l’economo, gli infermieri, il portiere, per esempio, Benedetto prevede due forme di aiuto per l’abate per quanto riguarda l’insieme delle sue attribuzioni. Da una parte vi è il priore, di cui Benedetto parlerà esplicitamente molto più avanti (cap. 65), e d’altra parte vi è il sistema dei decani – un sistema che Benedetto preferisce nettamente, ma che in realtà non ha mai avuto molto successo nel corso della  storia.  Diversi tentativi  sono stati fatti nella nostra epoca per ridargli nuova vita.

Sarà comunque interessante studiare questo capitolo della Regola, perché dà dei principi di base che possono applicarsi a tutti coloro che si trovano a dover aiutare l’abate nell’esercizio delle sue funzioni. Quando abbiamo parlato di “paternità spirituale”, già diversi mesi fa, abbiamo visto che l’abate non esercita una paternità che gli sarebbe in qualche modo propria – i monaci non sono “suoi” figli - ; bensì esercita la paternità sulla comunità come “vicario” (vices Christi). E’ dunque del tutto normale che egli condivida questa paternità con altri fratelli.

“Questi decani saranno scelti, dice Benedetto, in persone tali che l’abate possa contare su di loro e associarli alla sua propria carica.” Saranno dunque scelti tra i fratelli “di buona reputazione e di vita santa”.  Poiché sono associati alla paternità spirituale dell’abate che si esercita prima di tutto attraverso l’insegnamento, Benedetto esige da questi aiuti dell’abate la stessa cosa che esige da quest’ultimo, vale a dire, che siano capaci di insegnare con la loro vita e con le parole. Saranno dunque scelti non in base alla loro età o alla loro anzianità nella comunità, ma secondo “il merito della vita (=l’esempio) e la saggia dottrina (=l’insegnamento).”

E ora vediamo come vengono scelti. La regola utilizza tre volte, in questo capitolo, la parola elegantur (dal verbo latino elegere). Questo termine non ha il senso del verbo moderno) “eleggere”. Ha il senso più generale di “scegliere”. Tutto il contesto della regola, e in particolare l’altra menzione che viene fatta dei decani alla fine del capitolo sul priore, mostra bene che per Benedetto è l’abate che sceglie i suoi collaboratori, ma che, nello spirito del capitolo 3, non deve mai farlo senza consultare i fratelli.

Si tratta non di un onore, ma di un servizio. Questo principio vale per ogni responsabilità in comunità, a cominciare da quella dell’abate. Se Benedetto chiama costantemente l’abate all’umiltà, non esclude nemmeno che un decano o il priore possano gonfiarsi di orgoglio e stabilirsi come un’autorità parallela all’abate, e per ciò stesso possano provocare delle divisioni nella comunità. In quello che Benedetto dice a questo riguardo si percepisce la sua grande umanità e la sua grande comprensione della natura umana. Ad una persona che agisse in tal modo, occorre dare la possibilità di emendarsi. Si deve dunque riprenderla non una volta ma tre volte. E, se non vorrà correggersi, sia destituito dalla sua responsabilità, ma non prima di essere stato ripreso tre volte. Anche in queste ultime parole Benedetto mostra una grande sensibilità nei confronti della debolezza umana. E in effetti sarà destituito, non colui che non si corregge, ma colui che “non vuole” correggersi. Non è tale o talaltro comportamento reprensibile che giustifica in sé una sanzione, ma la mancanza di buon volere o di buona volontà. Queste precisazioni bene esprimono un principio formulato altrove da Benedetto. Anche se l’abate riceve dalla Regola una responsabilità molto estesa, non deve mai agire per capriccio o in maniera arbitraria, ma con il più grande rispetto di tutti i suoi fratelli, a cominciare da quelli che ha chiamato ad agevolarlo nell’esercizio della sua carica.

È questo uno dei molti capitoli della Regola che ha un valore non solo per i monaci ma per tutta la Chiesa e la società. Lo spirito di questo capitolo potrebbe restituire per esempio un po’ di umanità nel mondo della politica, dove persone a cui erano stati affidati dei posti importanti sono talvolta “cancellati” per ragioni di opportunismo elettorale che non hanno nulla a che vedere con la loro competenza o il modo in cui esercitano le loro responsabilità.

L’accento in Benedetto è molto diverso da quello che potevamo trovare in certi documenti monastici anteriori, specialmente in Cassiano e nella Regola del Maestro, dove il ruolo dei decani era principalmente un ruolo di sorveglianza e di correzione.  Adalbert de Vogüé ha mostrato anche, nel suo commento, che i tentativi moderni di risuscitare il sistema delle decanìe va in una direzione che è tutta diversa da quella di Benedetto. E’ soprattutto in alcune grandi comunità che sono state fatte queste esperienze, allo scopo di creare in seno ad esse delle piccole unità, una sorta di comunità nella comunità – in cui la condivisione fraterna e il dialogare siano più facili. Personalmente credo che la qualità di una vita comunitaria non dipenda affatto dalla dimensione della comunità. Se non si può vivere uno spirito di comunità dentro una grande comunità, dubito che si possa farlo in una piccola. Si tratta di un atteggiamento di fondo più che di una molteplicità di contatti. Non bisogna confondere frequenza di contatti e profondità della comunione.

Tra l’abate e tutti coloro che lo assistono nel suo servizio della comunità Benedetto esige una grande unità di visione. Non prevede – e neppure esclude – delle riunioni frequenti di pianificazione e coordinamento, che corrispondono di più alla nostra mentalità contemporanea. Insiste semplicemente sulla comunione degli spiriti.

Armand VEILLEUX

(traduzione di Anna Bozzo)