24 settembre 2000 – Capitolo alla Comunità di Scourmont
L'accoglienza degli ospiti
(RB 53)
RB53 - L'ACCOGLIENZA DEGLI OSPITI
1 Tutti gli ospiti siano ricevuti come Cristo in persona, perché lui stesso dirà : « Ero forestiero e mi avete ricevuto » (Matteo 25,35).
2 Siano ricevuti tutti con il rispetto dovuto a ciascuno, ma soprattutto i nostri fratelli nella fede e gli stranieri (Galati, 6,10).
3 Appena dunque sarà annunziato un ospite, gli vadano incontro il superiore e i fratelli con ogni dimostrazione di carità.
4 Innanzitutto preghino insieme e poi lo accolgano con l’abbraccio della pace.
5 Questo bacio di pace si dia dopo aver pregato, per timore delle illusioni diaboliche.
6 Anche nel modo di salutare si mostri grande umiltà a tutti gli ospiti che arrivano o che partono.
7 Col capo chino o prostrati a terra, si adori in essi il Cristo, perché è lui che viene ricevuto.
8 Gli ospiti così accolti siano accompagnati alla preghiera. Il superiore o chi egli avrà incaricato, sieda con loro.
9 Si legga davanti all’ospite, per sua edificazione, la divina Scrittura, indi gli venga usata ogni attenzione.
10 Per riguardo all’ospite, il superiore rompa il digiuno, a meno che non sia un giorno particolare di digiuno che bisogna rispettare a tutti i costi.
11 I fratelli invece proseguano a digiunare come di consueto.
12 L’abate versi acqua sulle mani degli ospiti.
13 Con tutta la comunità, lavi i piedi di tutti gli ospiti.
14 Dopo aver lavato i piedi, dicano questo versetto: “Qui nel tuo tempio, o Dio, abbiamo ricevuto il tuo amore”. (Sal 47,10).
15 Si accolgano con estremo rispetto i poveri e i pellegrini, perché soprattutto in essi si riceve Cristo. I ricchi invece si fanno temere e si impongono da se stessi all’attenzione.
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Poiché
oggi riceveremo parecchie centinaia di visitatori (La Marcia di San Benedetto), provvisoriamente interrompo il mio
commento sui capitoli della Regola relativi all’Ufficio Divino, per commentare
il capitolo 53 sull’accoglienza degli ospiti. L’ospitalità è del resto una delle
caratteristiche della tradizione benedettina, quasi quanto la celebrazione
dell’Opus Dei.
Tutti
i grandi commenti della Regola fanno notare che questo capitolo, relativamente
breve, si divide nettamente in due parti. La prima, più antica e più teologica,
descrive lo spirito con cui deve essere praticata l’ospitalità, e le sue
principali forme. Benedetto, senza dubbio verso la fine della sua vita, vi ha
aggiunto una seconda parte basata sull’esperienza degli anni, che risponde
soprattutto alla preoccupazione di preservare l’atmosfera della vita
comunitaria, dal momento che gli ospiti
si presentano numerosi al monastero e talvolta ad ore inopportune.
Il
primo versetto enuncia in apertura il principio teologico e spirituale che
orienterà tutto il capitolo. Tutti gli ospiti che arrivano saranno ricevuti
come Cristo, perché egli dirà loro un giorno: Sono stato vostro ospite e voi mi
avete ricevuto. Questo principio si basa direttamente o indirettamente su
diversi testi sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, e fa appello a uno
sguardo di fede.
Il
primo testo biblico che viene in mente è evidentemente l’esempio di ospitalità
dato da Abramo, che, accogliendo con una ospitalità squisita tre viaggiatori
sconosciuti, ricevette in realtà la visita del Signore e la promessa di una
posterità (scena immortalata da Rublev nella sua icona della Trinità). Indi la Legge d’Israele, che ricorda agli
Ebrei che sono stati loro stessi ricevuti in Egitto, li invita a trattare lo
straniero come uno dei loro e ad amarlo come se stessi. La Legge li invita del resto a proteggere in
modo speciale i deboli e i piccoli.
Nel
Vangelo, il testo che costituisce la chiave di volta sull’insegnamento di Gesù
sull’ospitalità si trova in Matteo al capitolo 25, dove Gesù si identifica con
i piccoli, o poveri e i perseguitati. “Ero uno straniero e mi avete accolto…” o
“ Ero uno straniero e non mi avete accolto…” Sono le parole di Gesù con cui
Benedetto comincia questo capitolo.
Una
volta che è stata ben impostata questa visione di fede, si comprende meglio il
rituale in qualche sorta liturgico stabilito da Benedetto per l’accoglienza
degli ospiti. Se si devono avere dei riguardi “soprattutto per i
fratelli nella fede e i pellegrini”, questo “soprattutto” implica che si devono
avere anche per tutti gli altri. Questo rituale consiste nel venire
sollecitamente incontro a coloro che arrivano, nel pregare con loro, poi nel
dare loro l’abbraccio di pace. Indi ci si prosterna per adorare il cristo in
loro, e li si conduce a preghiera. Soltanto dopo tutto questo si legge la
Parola di Dio, poi si spezza il pane, dopo che l’abate e tutti i fratelli
abbiano lavato i piedi e le mani degli ospiti.
Benedetto
termina questa prima sezione dicendo che si deve avere una cura particolare nel
ricevere i poveri e i pellegrini,
perché in loro più che in altri, è il Cristo che riceviamo. Sono proprio
coloro nei quali il Cristo ha scelto di identificarsi in modo particolare.
Per
il momento possiamo accantonare la seconda parte del capitolo, che si preoccupa
soprattutto del modo di organizzare il lavoro nella cucina della foresteria e
di vigilare affinché il grande numero di ospiti che si presentano non abbiano a
turbare la vita della comunità.
Le
nostre Costituzioni (Cst.30) hanno ripreso tutta la sostanza di questo capitolo
di Benedetto sull’accoglienza degli ospiti, insistendo (ST 30A) sull’aiuto che
la comunità deve prestare a “coloro che
vengono al monastero per cercarvi un approfondimento della loro vita di
preghiera”. E’ un fatto che, anche nei paesi più scristianizzati, e perfino là
dove le vocazioni alla vita monastica si sono fatte più rare, sempre più
numerose sono le persone che cercano nei monasteri dei luoghi in cui incontrare
Dio e ritrovarsi con se stessi.
Nella
Chiesa e nella società di oggi, le foresterie dei monasteri sono come dei “territori neutrali” in cui le persone
di tutte le classi sociali, di tutte le tendenze politiche o religiose, in
tutte le situazioni professionali o matrimoniali, possono sentirsi a casa loro
e sapersi accettati.
Certi
monasteri, come Taizé, possono avere una vocazione speciale, come quella di
organizzare gradi raduni di giovani. E’ possibile anche che una comunità riceva
qualche volta un grande gruppo, con una preoccupazione pastorale ben precisa,
come la Marcia di san Benedetto che riceviamo oggi. Ma la vocazione più comune
delle nostre foresterie monastiche è di essere semplicemente delle oasi di
pace, dove possono ritirarsi in qualunque momento tutti coloro che hanno
bisogno di un contesto di preghiera, di solitudine e di tranquillità per
incontrare Dio, o anche per guarire dalle ferite spirituali o psicologiche. Se
queste foresterie sono aperte ai fratelli e sorelle nella fede, esse lo sono
anche a tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
In
occasione di udienze accordate ai nostri Capitoli Generali, gli ultimi Papi,
Paolo VI e Giovanni Paolo II in particolare, ci hanno ricordato questa
dimensione della nostra vocazione cistercense. Così, nella sua lettera alla
Famiglia Cistercense, nel 1998, Giovanni Paolo II scriveva:
Per molte
persone, degli interrogativi spirituali essenziali possono trovare espressione
e approfondimento grazie all’accoglienza che viene loro proposta nei
monasteri. Una comunità fraterna di fede permette di percepire un polo di
stabilità in una società in cui i punti
fermi più fondamentali scompaiono, soprattutto per i più giovani. Figli e
figlie di Cîteaux, la Chiesa attende da voi che i vostri monasteri siano tra
gli uomini d’oggi, secondo la vocazione che vi è propria, un segno eloquente di
comunione, una dimora accogliente per coloro che cercano Dio e le realtà
spirituali; siano scuole della fede e veri centri di studi, di dialogo e di
cultura, sia per l’edificazione della vita ecclesiale e della stessa città
terrestre, nell’attesa della città celeste (Vita consecrata, n. 6).
L’ultima frase del testo di Giovanni Paolo II, appena citata, è ripresa nell’Istruzione Apostolica post-sinodale sulla Vita Consacrata. Essa auspica che i nostri monasteri siano non soltanto delle scuole di fede e di preghiera, ma anche dei centri di studi, di dialogo e di cultura, sia per l’edificazione della vita ecclesiale che per quella della città terrestre, nell’attesa della città celeste.
Questo appello al dialogo – un dialogo aperto a tutte le culture, a tutte le tendenze e a tutte le religioni – è una costante del pontificato di Giovanni Paolo II. E’ evidentemente alla luce di questo atteggiamento che conviene leggere certi documenti,come per esempio la recente dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede Dominus Jesus, che senza dubbio ricorda la Dottrina del Concilio e l’insegnamento costante del Papa, ma nella misura in cui, con il suo tono, sembra dare un colpo di freno al Dialogo ecumenico e interreligioso, è da vedere come un incidente di percorso. Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno entrambi, a più riprese, invitato i monaci ad assumere un ruolo di primo piano nel dialogo interreligioso (in cui il nostro Padre Bernardo ha sempre svolto un ruolo molto apprezzato per la sua apertura, unita ad un grande equilibrio dottrinale).
Ho
già ricordato, in una altra conversazione, come il Santo Padre, nella stessa
lettera alla Famiglia Cistercense, e precisamente in quel contesto in cui parla
dell’ospitalità, ci esorta a una nuova forma di ospitalità, consistente nel
permettere a dei laici di partecipare nello stesso tempo a certi aspetti della
nostra vita e anche al nostro carisma spirituale cistercense. E’ il paragrafo
che segue immediatamente quello appena citato:
Vi incoraggio anche, secondo le
circostanze, a discernere con prudenza e senso profetico la partecipazione di
fedeli laici alla vostra famiglia spirituale, sotto la formula di “membri associati”, oppure, secondo i
bisogni attuali in certi contesti culturali, sotto forma di condivisione
temporanea della vita comunitaria (Vita
consacrata, n. 56) e di impegno nella contemplazione, a condizione che
l’dentità propria della vostra vita monastica non ne abbia a soffrire.
Il carisma che abbiamo ricevuto non
ci appartiene. Come ogni carisma, appartiene alla Chiesa, cioè all’insieme del
Popolo di Dio. Noi ne siamo i depositari e i custodi. Abbiamo anche l’obbligo
di condividerlo. L’ospitalità è una
maniera di farlo.
Armand
VEILLEUX
(traduzione di Anna Bozzo)