30 luglio 2000 – Capitolo alla Comunità di Scourmont

 

12° gradino dell'umiltà : l'amore che allontana la paura

 

Il dodicesimo gradino dell’umiltà il monaco lo raggiunge quando l’umiltà costante del cuore è resa visibile dallo stesso atteggiamento esteriore e viene percepita da quelli che lo vedono; nell’Ufficio divino, nell’oratorio, in monastero, nell’orto, per strada, nei campi, e dovunque il monaco, che sia seduto, in piedi o cammini, tiene sempre il capo chino, lo sguardo fisso a terra; in ogni momento, ritenendosi colpevole dei propri peccati… ripete continuamente dentro di sé quel che disse con gli occhi fissi a terra il pubblicano del Vangelo: Signore, non sono degno, io peccatore, di levare lo sguardo al cielo…

Saliti tutti questi gradini dell’umiltà, il monaco giungerà presto a quell’amore di Dio, che, divenuto perfetto, allontana la paura.  Grazie a questo amore, tutte le prescrizioni che prima osservava spinto dalla paura, le metterà in pratica senza alcuna fatica, quasi naturalmente, come consuetudini, non più per paura dell’inferno, ma per amore di Cristo, per l’abitudine al bene e per il gusto della virtù.

Queste cose il Signore si degni di manifestare per opera dello Spirito Santo nel suo operaio, purificato dai vizi e dai peccati.

 

Siamo dunque giunti al termine di questo lungo capitolo della Regola sull’umiltà e – almeno nella nostra riflessione – al vertice della scala. Il primo gradino cominciava con la paura del peccato e dell’inferno; l’ultimo approda all’amore che allontana la paura. Quale cammino abbiamo percorso!

Questo dodicesimo gradino, con la sua menzione del capo chino e degli occhi bassi, potrebbe sembrarci esagerato e per nulla attraente, se non ricavasse tutto il suo senso dalla menzione del pubblicano del Vangelo, che ne è il punto centrale. Questo pubblicano non è affatto un uomo distrutto; è certo consapevole del suo stato di peccatore, ma è anche fiducioso nell’amore misericordioso del Signore (abbi pietà di me peccatore).

Quello che si ricava da questo dodicesimo gradino, un po’ più lungo dei precedenti nella formulazione, è che il monaco, nel corso della sua salita per la scala dell’umiltà, ha acquisito la “virtù” dell’umiltà – quasi oserei dire, permettendomi un anacronismo – la virtù nel senso scolastico del termine, vale a dire un’abitudine acquisita, un habitus. L’atteggiamento umile è per lui divenuto a tal punto un’abitudine, che si manifesta nel suo comportamento fisico e lo accompagna dovunque: alla preghiera come al lavoro, in coro e nell’orto, quando sta in piedi e quando è seduto.

Benedetto si manifesta fine psicologo. Non si è affatto preoccupato, durante la salita verso questo vertice, di domandare al monaco di adottare atteggiamenti esteriori di umiltà. Ha avuto cura piuttosto di tracciare l’atteggiamento interiore del monaco e il suo comportamento nei confronti della comunità.  Ora egli dà per acquisito che, se l’ascensione si è compiuta con successo, l’umiltà si manifesterà naturalmente, nel modo di essere e di agire, durante l’Ufficio Divino, al lavoro, in viaggio, stando in piedi o seduto, ecc.  Il fatto è che l’umiltà, come ogni vera virtù, non concerne tale o tal altro comportamento, ma tutto l’essere. Assumere dei comportamenti umili è relativamente facile; essere umile in tutto il proprio essere è il frutto del lavoro di una vita.

Il monaco arrivato a questo gradino è colui che Thomas Merton, in uno dei suoi ultimi scritti, chiamava l’integrazione finale. Il che significa che egli è diventato una persona unificata, integrata, senza tensioni interne, se non la tensione totale verso l’ unico fine ultimo; una persona la cui esistenza non è fatta a compartimenti stagni. Ciò che lo fa tendere con tutto il suo essere in questa direzione, è l’amore del Cristo, e il “diletto che procurano le virtù” (dilectatione virtutum). Si ritrova qui la stessa immagine che ricorre alla fine del prologo; quella del monaco che corre, con il cuore dilatato dall’amore, sulla via dei comandamenti.

Nel Prologo Benedetto faceva intervenire il Signore che andava  alla ricerca del suo operaio nella folla (Prol.14). Ora il Padre il suo operaio lo ha trovato, e questi  si è lasciato trovare. Egli si è lasciato soprattutto purificare da tutti i suoi vizi e i suoi peccati. Così Benedetto può concludere questo capitolo in una maniera in un certo senso maestosa, facendo intervenire lo Spirito Santo:  Queste cose il Signore si degni di manifestare, per opera dello Spirito Santo, nel suo operaio, purificato dai vizi e dai peccati.

Al termine di questa salita,Benedetto lascia dunque il monaco sulla soglia della via mistica. È di questa via mistica, cioè di questa via di comunione con Dio, che parleranno i capitoli successivi della Regola. Per Benedetto, come sappiamo, questa relazione con Dio si vive attraverso tutti gli elementi della vita di tutti i giorni. E uno di questi elementi, tra i più importanti, è l’Ufficio Divino. Egli descriverà dunque nei dettagli, nel corso di parecchi capitoli, il modo in cui si celebra questo Ufficio in comunità.

 

Armand VEILLEUX

 

(traduzione di Anna Bozzo e Mario Curti)