23 luglio 2000, Capitolo alla Comunità di Scourmont
Nono, decimo e
undicesimo gradino dell'umiltà : il silenzio
Il decimo
gradino dell’umiltà è non ridere per qualunque sciocchezza, perché sta
scritto: l’uomo maleducato ride in modo
sguaiato.
L’undicesimo
gradino dell’umiltà è quello in cui il monaco, quando parla, lo fa sottovoce,
senza ridere, umilmente e con gravità, con brevi e assennate parole, senza
alzare la voce, come sta scritto: il saggio si riconosce dalle poche parole.
Per
San Benedetto il silenzio e il buon uso della parola stanno
sullo stesso piano, per questo li tratta insieme, e così fa pure del ridere,
nei gradini nono, decimo e undicesimo del suo capitolo sull’umiltà. Il
silenzio è essenzialmente orientato verso la parola: in primo luogo la parola
ricevuta nel silenzio, e poi la parola data, che deve essere nata dal silenzio
e di silenzio deve essersi nutrita.
Il più fondamentale atteggiamento del monaco,
quello menzionato fin dalla prima parola della Regola, è l’ascolto della
parola. Ausculta... E questo
ascolto è prima di tutto quello della Parola di Dio: Parola di Dio ascoltata in
una lettura assidua della Sacra Scrittura, ma anche Parola di Dio intesa nel
profondo del nostro cuore, sia nel corso di questa lettura, che durante tutte
le altre occupazioni della vita quotidiana. Questa Parola, come ci insegna la
nostra esperienza di ogni giorno, noi non la sentiamo che nella misura in cui
facciamo silenzio in noi e intorno a noi.
Questo silenzio dobbiamo farlo prima di tutto
in noi. E’ il silenzio delle passioni, che dobbiamo sforzarci di far tacere –
siano esse la collera, la gelosia, o l’ambizione, la vanità, ecc. E’ anche il
silenzio delle preoccupazioni materiali. Per questo il monaco rinuncia a ogni
proprietà personale con il suo voto di povertà, dato che Benedetto assegna
all’abate l’obbligo di vegliare a che nessuno manchi del necessario. E’ anche
il silenzio materiale – l’assenza di parole e di rumore – destinato a favorire
il silenzio interiore.
Vi sono nel monastero luoghi – i chiostri, il
refettorio, il capitolo e sicuramente la chiesa – in cui tradizionalmente non
si parla. Non si tratta di un semplice “regolamento”. Si tratta di assicurare a
ciascun monaco dei luoghi in cui possa, a qualunque ora, essere certo di
trovare un silenzio esteriore che favorisca e nutra il suo silenzio interiore,
per rimanere – o ritornare – all’ascolto della Parola.
Dio ci parla non soltanto attraverso le
Scritture, ma attraverso la Parola di
altre persone. Non soltanto certi hanno ricevuto il compito di insegnare, e non
soltanto san Benedetto attribuisce a quasi tutti i compiti da svolgere in seno
alla comunità la capacità di portare “una buona parola”, ma tutti noi siamo
chiamati, in diverse occasioni, a trasmetterci vicendevolmente la Parola,
attraverso le parole rese necessarie dalla vita quotidiana di una comunità.
Benedetto domanda al monaco non soltanto di
“tenere a freno la lingua”, cioè di controllarla, di non lasciarla parlare a
vanvera, bensì di amare il silenzio; e ancor più, di “coltivare l’amore
del silenzio”, cioè di farne una cultura, la propria “cultura monastica”.
Gli consiglia di non lasciarsi trascinare dal suo bisogno naturale di parlare,
ma piuttosto di attendere di essere interrogato prima di aprire la bocca, in
modo che la sua parola sia non la soddisfazione di un bisogno personale di
parlare, ma la risposta al bisogno dell’altro di ricevere una parola. In questo consiste il nono gradino.
Quanto all’undicesimo gradino, Benedetto si
preoccupa della qualità della parola, e mette qui in pratica veramente quello
che insegna, poiché con pochissime parole designa diverse esigenze. Il monaco
deve parlare con calma, con serietà, servendosi di poche parole, e con parole
che siano sensate, cioè che siano il frutto della ragione e del ragionamento.
Benedetto non si oppone certo alla gioia ( e altrove ne fa menzione), ma ha un
tale culto della parola che scaturisce dal silenzio, da escludere il parlare
chiassoso accompagnato da risate (decimo gradino).
Si vede dunque che per Benedetto il silenzio
non è un esercizio ascetico – non si osserva il silenzio allo scopo di “fare
penitenza” – ma che è tutto finalizzato
alla qualità dell’ascolto della Parola e alla qualità del parlare, quando si
tratta di esprimersi in parole. Questo silenzio è prima di tutto interiore. E
questo silenzio interiore ha certo bisogno del supporto di un silenzio
esteriore, ma non è totalmente dipendente da quest’ultimo. Colui che si è
installato nel silenzio interiore, non è disturbato – e comunque non lo è oltre
misura – dai rumori o dalle parole da
cui può trovarsi occasionalmente circondato.
Se le circostanze del lavoro o l’esercizio di altre responsabilità ci
mettono in un ambiente rumoroso o ci obbligano a rimanere per ore in un
contesto fatto di conversazioni o di riunioni (per esempio pastorali o
d’affari), ciò non ci dispensa dall’esigenza di mantenere un silenzio interiore
che dovrebbe trasparire all’esterno di noi stessi.
Nel mondo d’oggi, con tutte le nuove risorse
che ci mettono a disposizione i mezzi di comunicazione e le tecniche
audio-visive, siamo spesso tentati di fuggire il silenzio, circondandoci senza
tregua di suoni, rumori, immagini, ecc. Molti uomini e donne vengono oggi nelle
foresterie dei monasteri, per ritrovarvi,
per qualche ora o qualche giorno, dei momenti di silenzio. Ma questo non
servirà loro a molto (se non a concedersi un po’ di riposo – il che è già
qualcosa), se essi faranno di questi momenti di “ritiro” delle semplici oasi di
tranquillità, in una vita totalmente
priva di silenzio. Dovrebbe questa essere piuttosto l’occasione per loro
di scoprire come fare a vivere il silenzio interiore nel bel mezzo delle loro
occupazioni quotidiane, con tutto ciò che esse comportano di attività e di
parole. I monaci con cui essi entrano in contatto – di fatto tutti noi –
possono aiutarli, non soltanto con l’esempio del silenzio materiale, ma anche –
e certamente ancor più – con l’esempio di un lavoro e di un modo di parlare
improntati a questa atmosfera di silenzio descritta da Benedetto in questi tre
gradini dell’umiltà.
Armand VEILLEUX
(traduzione di Anna Bozzo)