16 luglio 2000, Capitolo alla Comunità di Scourmont
Ottavo gradino dell'umiltà : realizzarsi in comunità
I quattro primi gradini dell’umiltà
menzionati da Benedetto nel suo capitolo 7, sono così fondamentali da valere
per tutti i cristiani e anche per tutti gli uomini. Si tratta di riconoscersi
come si è davanti a Dio e agli uomini, di non voler fare di testa propria ma di
accettare di obbedire. Il quinto e il sesto gradino si applicano al monaco, ma
potrebbero altrettanto bene applicarsi ad ogni altra persona. Anche il settimo
è di interesse generale.
A partire dall’ottavo gradino le cose
cambiano. Si tratta ora molto più esplicitamente dell’umiltà del monaco. (L’ottavo gradino consiste, per il
monaco…”). Sono ora applicati al
monaco che vive in comunità i principi descritti nei gradini anteriori. Vi è
una dimensione nettamente sociale e comunitaria nei gradini che seguono.
In questo brevissimo ottavo gradino, oltre la
parola “monaco” notiamo anche la parola “fare”. Finora si trattava di
atteggiamenti; ora si tratta di fare qualcosa. Questo è importante, non
soltanto perché ogni vera fede deve esprimersi con delle “opere” o delle azioni
concrete, ma anche perché, in una vita in comune vi è sempre molto da fare, e
soprattutto molti servizi da compiere. Si tratta ora di vedere come questa
attività può e deve essere impregnata di umiltà.
Questo “fare”, questa attività del monaco
benedettino, poiché è l’attività di un
cenobita, non deve essere un’attività puramente arbitraria, ma deve conformarsi
ad una regola comune. “Fare soltanto quello che consiglia la comune
Regola del monastero” dice Benedetto. È questa in effetti la particolarità del
cenobitismo. Tutte le virtù cristiane che il monaco si sforza di vivere possono
essere vissute anche da un laico nel mondo o da un solitario nel deserto. Il
laico nel mondo è guidato, nella sua vita cristiana, dal suo vescovo e può avere
altri padri spirituali. Il solitario che si immerge nel deserto si metterà, il
più delle volte, sotto la direzione di un anziano che ha fatto da molto tempo
l’esperienza della ricerca solitaria di Dio e può guidarlo, condividendo con
lui la sua esperienza. Nella comunità cenobitica l’esperienza spirituale delle
generazioni passate è iscritta in una regola comune, che svolge per il cenobita
lo stesso ruolo del padre spirituale carismatico nel deserto.
La Regola, per Benedetto, non è un semplice
testo di carattere giuridico, è la memoria collettiva delle generazioni
precedenti e il frutto della l,oro esperienza spirituale. E’ la ragione per cui
egli mette sullo stesso piano la regola comune del monastero e l’esempio degli
anziani. Colui che sceglie la vita cenobitica sceglie di lasciarsi guidare
nella sua ricerca spirituale da una tradizione vivente, incarnata in una regola
di vita e una comunità concreta in cui coloro che vi sono arrivati prima di lui
sono per lui degli “anziani”. Benedetto non parla di osservare rigidamente una
regola o di copiare servilmente l’esempio degli anziani. Parla di agire in
conformità con le esortazioni (cohortantur) dell’una e dell’altro. Una
tale conformità ad una regola comune e all’esempio degli anziani nulla toglie
alla spontaneità e non deve creare dei monaci tutti artificialmente identici,
come fabbricati con lo stampino.
Uno dei segni di una vocazione autentica è
quando un novizio o un monaco diventa sempre più se stesso, e autonomo (cioè,
acquisisce la sua identità personale) nello stesso tempo in cui assume l’identità spirituale collettiva della sua
comunità. Una comunità è costituita dalla comunione tra diverse persone dotate
di una identità chiara, e nettamente autonome, ed è molto diversa
dall’assemblaggio di individui tutti identici come cloni.
Il paradosso è che, per arrivare a
realizzarsi armoniosamente in seno ad una comunità, il monaco deve disfarsi di
un bisogno eccessivo e adolescenziale di originalità e di affermazione di sé.
Vi sono due segni di non vocazione cenobitica. Il primo è quando uno ha
talmente paura di lasciarsi inghiottire dal gruppo, che fa quasi tutto un po’
diversamente dagli altri, sia perché pensa di fare meglio degli altri, sia
perché, semplicemente, ha l’impressione di non esistere più in quanto persona
se non si distingue dagli altri.
L’altro atteggiamento consiste in una tale mancanza di sicurezza e di
fiducia in se stessi, da desiderare di lasciarsi inghiottire dal gruppo in una
relazione di fusione. Non è certo questa fusione impersonale che vuole
Benedetto, il quale, nel capitolo sulla
convocazione dei fratelli in consiglio, invita ciascuno a dire il suo punto di
vista – il che implica che è normale che i punti di vista siano diversi – e
osserva che tutti devono essere convocati, poiché spesso Dio rivela le cose più
sagge ai più giovani.
Questa identità personale e questa autonomia
di pensiero e di visione si sviluppa
allorché tutti insieme, giorno dopo giorno, ci si lascia guidare nelle
proprie decisioni personali dalla regola comune del monastero e dall’esempio
degli anziani.
Benedetto desidera dunque una umiltà che sia
quella di uomini e donne adulti e responsabili, i quali abbiano abbastanza
libertà interiore per, da una parte non temere di lasciarsi guidare da una
regola comune e dall’esempio degli anziani, e, d’altra parte, per essere in
grado di prendere delle decisioni personali alla luce di questa regola e di
questi esempi, assumendone la responsabilità.
Armand VEILLEUX
(traduzione di Anna
Bozzo)