9 juillet 2000 – chapitre à la
communauté de Scourmont
“ Il
sesto gradino dell’umiltà per il monaco è accontentarsi di ogni cosa vile e
spregevole e nell’eseguire tutte le cose che gli sono comandate, considerarsi
un inetto e indegno operaio, ripetendo col profeta: ‘Ero solo uno sciocco, non
capivo, davanti a te stavo come una bestia, ma io sono sempre con te’.” (Salmo
72,22)
“Il settimo gradino dell’umiltà è non solo dire a parole di essere spregevole e inferiore a tutti, ma crederlo con umile convinzione del cuore, umiliandosi e dicendo col profeta: ‘ Io sono un verme, non sono più un uomo, la gente mi insulta, tutti mi disprezzano.’ (Salmo 21,7) . ‘Sono stato esaltato, e poi umiliato e confuso’. Oppure: ‘ E’ stata un bene per me l’umiliazione, così ho appreso la tua volontà’.” (Salmo 118,71)
Il sesto e il settimo gradino dell’umiltà in Benedetto sono un tutt’uno. Sono due aspetti complementari di una sola realtà. Il loro linguaggio, preso alla lettera, non esprime certo una spiritualità attraente per la nostra mentalità moderna. Ma occorre esaminarli più da vicino e coglierne il succo. Prima di tutto, bisogna prestare attenzione ai testi della Scrittura citati da Benedetto.
Il sesto gradino cita il salmo 72, che
comincia con le parole “Quanto è buono Dio con i giusti, con gli uomini dal
cuore puro”. Questo salmo, che esprime prima lo scandalo apparente della
prosperità degli empi e della sofferenza dei giusti, nella stessa linea del
libro di Giobbe, oppone poi la felicità effimera dei cattivi alla pace
dell’amicizia divina che non delude mai. Le parole più importanti della
citazione sono senza dubbio le ultime: “e io sono con te sempre.”
Il settimo gradino cita dapprima il salmo 21,
che esprime ancora il lamento e la preghiera di un innocente perseguitato e
l’azione di grazie per l’attesa liberazione, e che è stato tradizionalmente
attribuito al messia sofferente; e poi
il salmo 87, preghiera del giusto dal fondo del suo sconforto, e il salmo 118.
Bisogna andare al di là del linguaggio un po’
ostico di questi due gradini, e coglierne tutta la bellezza spirituale. Per
capirli bene, è necessario tener conto dello scopo a cui tendono, e questo
scopo è la trasformazione graduale a immagine del Cristo, il quale, prima di
essere il Cristo glorioso, è il Cristo sofferente.
San Benedetto invita qui il monaco a
liberarsi dall’apprezzamento degli uomini per arrivare alla piena maturità
umana e spirituale, che consiste nel porsi serenamente davanti a Dio così come
siamo, con le nostre debolezze e i nostri peccati, ma anche con la nostra
grande dignità di figli di Dio e la gioia di essere costantemente il figlio
prodigo nelle braccia del Padre.
Accettarsi umilmente così come si è, con le
proprie qualità e i propri limiti, è il primo passo in ogni processo di
crescita umana e spirituale. Nella vita di ogni persona, dopo tutte le
illusioni che sono proprie dell’adolescenza – un’adolescenza che può durare a
lungo, e in certi casi tutta la vita – arriva un certo momento in cui si
acquista una percezione netta della propria identità e dei propri limiti
davanti a Dio e davanti agli uomini. Certe persone vi arrivano per gradi.
Altre, in un momento radicale di conversione, che può, per esempio, essere il
momento in cui si accetta un fallimento serio e lo si riconosce per quello che
è, assumendolo.
Allora, o si assume la propria realtà e ci si mette semplicemente, senza falsa
umiltà, al servizio di Dio e degli altri, oppure ci si imbarca in una serie
interminabile e dolorosa di illusioni effimere, di ambizioni deluse, di attese
e di rimpianti.
Finché non si è capaci di accettarsi
umilmente come si è, è difficile accettare qualunque forma di autorità. E
l’autorità che è più difficile per noi da accettare è quella della nostra
stessa realtà, di ciò che siamo e dei fatti che ci circondano. Non è troppo
difficile invece porsi davanti a una persona come un’autorità. Con questa è
sempre possibile tirarsi d’impiccio, con la discussione o altrimenti. Ma gli
eventi stessi – la creazione di Dio in tutta la sua complessità – ci ricordano
senza tregua che noi non siamo tutta la realtà, ma che ne siamo soltanto una
piccolissima parte, e che l’obbedienza radicale e umile della fede consiste
nell’ascoltare la realtà come una espressione della voce di Dio.
La conversione domandata da Benedetto in
questi due gradini dell’umiltà consiste nel superare gli atteggiamenti
infantili di una vita centrata su se stessi, nell’abbandonare la tendenza, così
facile, ad attribuire agli altri i propri difetti. Una conversione che ci
induce a non più dipendere dall’apprezzamento degli altri, cosa che conduce ad
un’alternanza di euforia e di depressione, bensì ad assumere i nostri peccati, senza esagerarli o minimizzarli, e a
riprendere sempre il cammino della conversione, non per testardaggine, ma in un
atteggiamento di fiducia umile e forte. Si tratta di non sentirsi più, o di non
considerarsi, come il centro del mondo, ma piuttosto di vedere la propria vita
assunta nel mistero dell’amore di Dio.
Quando questo passaggio o questa conversione,
non si opera, tutto diventa sempre più difficile. Si crea un vuoto affettivo,
che a sua volta crea un bisogno di conferme, di privilegi, di dimostrazione di
fiducia da parte degli altri, con, come conseguenza, un senso di fallimento se
tutto ciò non arriva, e il sentimento di essere trattati ingiustamente dai
fratelli e dai superiori.
Questa semplice accettazione della propria
realtà personale, con i propri talenti e i propri limiti, non solo conduce a
una grande libertà interiore, ma permette di mettersi al servizio della
comunità, nella linea del capitolo 72 della Regola, sullo zelo buono dei
monaci. Bisogna aver raggiunto almeno un po’ di questa libertà, per sopportare,
“con la più grande pazienza, le
debolezze, sia fisiche che morali, dei fratelli…”(RB 72, 5.7).
Bisogna aver vissuto almeno qualcosa del sesto e settimo gradino dell’umiltà per
essere capaci di praticare lo “zelo buono”, che consiste nel cercare di non
preferire nulla al Cristo (RB 72,11).
Armand VEILLEUX
(traduzione
di Anna Bozzo)