16 aprile 2000 – capitolo alla comunità di Scourmont

 

Una virtù a rischio

L'umiltà secondo san Benedetto  (continuazione)

 

Avevo  inizialmente pensato di interrompere la mia serie di commenti sulla regola di San Benedetto per la domenica di Passione, ma mi sono reso conto  che non vi è tempo più adatto del Tempo di Passione per commentare questo capitolo della regola di san Benedetto, e soprattutto il quarto gradino, che è precisamente quello a cui siamo arrivati.

Alla fine del terzo gradino, Benedetto citava il testo della Lettera di Paolo ai Filippesi, che avremo nella seconda lettura della Messa di questa mattina: “Si è fatto obbediente fino alla morte”. Quanto al quarto gradino, consisterà nell’accettare con pazienza e in silenzio  tutte le difficoltà e contrarietà che possono sorgere nell’esercizio dell’obbedienza e nella vita comunitaria in generale. Vi si trovano numerose citazioni di salmi che descrivono l’oppressione del giusto. E nel bel mezzo di questi testi improntati alla sofferenza, appare la bella citazione della Lettera ai Romani (8,37): “Ma in tutto ciò noi usciamo vincitori, grazie a colui che ci ha amati”.

Nel capitolo sull’ammissione dei fratelli, Benedetto dirà che non si dovrà esitare a mostrare al nuovo venuto le cose dure ed aspre (dura et aspera), attraverso le quali si giunge a Dio. Questi aspetti esigenti della vita monastica non sono soltanto,  e senza dubbio non sono in primo luogo – i digiuni e le veglie o altre pratiche ascetiche del genere, ma le esigenze di una vita in comune in cui si accetta non solo di vivere secondo una regola comune, anziché secondo i propri gusti e le proprie ispirazioni (o aspirazioni) personali del momento, e in cui si accetta di far passare il bene dei fratelli prima del proprio tornaconto personale.

Benedetto prevede esplicitamente che in una comunità di uomini che cercano Dio vi siano non soltanto delle situazioni difficili, ma anche delle situazioni di ingiustizia – siano esse reali o semplicemente percepite come tali - : “Il quarto gradino dell’umiltà viene raggiunto quando nell’obbedire, di fronte ad asprezze e contrarietà, e addirittura qualunque tipo di ingiustizia, si accetta deliberatamente di soffrire in silenzio e di buon grado”. Davanti a tali situazioni, se si presentano, Benedetto domanda la “stabilità”, la costanza, la volontà di “sopportare senza scoraggiarsi né recedere” poiché, come dice la Scrittura,  “colui che saprà perseverare fino alla fine sarà salvato”.

Questo modo di essere non gode certo oggi di molta popolarità. Recentemente il periodico inglese The Tablet ha iniziato una serie di articoli sotto il suggestivo titolo  di "Endangered virtues" – le  virtù a rischio di scomparsa (come si parla delle specie animali o vegetali in via di estinzione). Il primo articolo era consacrato all’abnegazione ( self-sacrifice) e i due successivi all’umiltà.  Entrambe queste virtù sono strettamente legate l’una all’altra. (Il prossimo articolo sarà sulla castità).

L’autore del primo articolo, Ian Bradley, descrive come le virtù di abnegazione e dono di sé  costituiscano l’uno dei fondamenti della cultura cristiana dell’Europa; non solo,  ma dice anche che esse erano al centro delle grandi imprese rivoluzionarie che hanno trasformato la società moderna.  Così, i principali personaggi dell’opera monumentale di Victor Hugo, I miserabili, sono tutti esempi di persone generose che si sacrificano per il bene altrui, a cominciare dal generoso Vescovo di Digne, o dalla disgraziata ragazza-madre Fantine, e soprattutto Jean Valjean, il personaggio centrale, che consacra tutta la sua vita ad occuparsi di Cosette, la bimba di Fantine.  Il fatto che a Londra il celebre “musical”, tratto da “I miserabili” di cui porta il nome, sia costantemente presente sulle scene da 15 anni senza interruzione, e sia stato visto da 45 milioni di persone nel mondo ci fa pensare che questo tipo di sacrificio di sé per una nobile causa tocca una corda sensibile della gente in generale, anche se tutta l’evoluzione della società sembra andare in senso inverso.

Un monastero è un luogo in cui dovrebbe essere facilissimo coltivare e praticare la virtù dell’umiltà, precisamente perché si tratta di una comunità in cui ciascuno è riconosciuto semplicemente e per quello che è, in tutta la sua grandezza di figlio o di figlia di Dio, e con l’accettazione serena dei suoi limiti. Un luogo in cui dunque non è necessario né logico affermarsi.  L’autore del secondo articolo sull’umiltà della rivista The Tablet , il Gran Rabbino di Londra Jonathan Sacks, dimostra come il processo di urbanizzazione ha messo in forse la virtù dell’umiltà. Quando si viveva in villaggi, o anche in comunità urbane a dimensione umana, in cui tutti si conoscevano, era molto più facile e normale essere semplicemente se stessi, il che è una delle principali caratteristiche dell’umiltà.  Quando al contrario si vive in grandi agglomerazioni anonime, in cui si è tutti estranei gli uni per gli altri, si manifesta il bisogno urgente di affermarsi, di farsi sentire, di farsi riconoscere come qualcuno di speciale, o anche come qualcuno di superiore. In una comunità di amici ci si rivolge spontaneamente verso l’altro; in un gruppo di estranei in cui non ci si sente riconosciuti, si è portati a imporre la propria presenza per farsi notare.

Il Rabbino Sacks racconta una esperienza di vera umiltà che egli fece in gioventù, quando fu ricevuto, ancora giovane studente sconosciuto, da un grande rabbino di fama internazionale, il quale gli consacrò tutta la sua attenzione, senza mettersi lui stesso in evidenza.  Ho fatto un giorno un’esperienza simile. Durante il Concilio ho accompagnato presso il padre De Lubac (futuro cardinale) un giovane confratello che cominciava una tesi su Teilhard de Chardin. De Lubac era giusto rientrato da una sessione del Concilio con un gruppo di vescovi. Subito lasciò i vescovi e saltò la cena per incontrare quello studente, e poi, mentre era lui il grande specialista di Teilhard de Chardin, per tutta la conversazione si interessò a quello che lo studente aveva già scoperto di Teilhard, piuttosto che di far sempre valere la sua propria conoscenza. E’ questo il segno che una persona è veramente umile, che non ha nulla da provare, nulla da difendere; che non ha alcun bisogno di farsi valere.

Per diverse ragioni, che possono spiegare gli psicologi, i sociologi,  i teologi, la virtù dell’umiltà non è molto popolare di questi tempi, non più di quella – connessa – del sacrificio di sé. Una delle conseguenze è la difficoltà che sempre di più si incontra ad essere dedeli in maniera duratura  ad un impegno preso, e l’indebolimento del senso del “dovere” – sia che si tratti del dovere nei confronti di una famiglia che uno ha costituito, o di una comunità in cui uno si è impegnato. Nella generazione dei nostri genitori il senso del dovere e del sacrificio era molto forte. Si realizzavano pienamente  e si aprivano nello svolgimento di questo compito bello e difficile che consiste nel tirare su una famiglia. Loro sì, erano spontaneamente umili. In seguito a numerosi cambiamenti sociologici, un grande problema per molte persone oggi, è trovare il modo di realizzarsi personalmente e in maniera autonoma, rimanendo fedeli a un coniuge e allevando una famiglia. E non è mai facile di mantenere un equilibrio tra le due cose. Lo stesso dilemma si pone per chiunque entra in una comunità. Ed è la ragione per cui, in un caso come nell’altro, la perseveranza – menzionata esplicitamente da Benedetto in questo quarto gradino dell’umiltà – è una bella sfida.

La Regola benedettina prevede la piena realizzazione di ciascuno dei membri in seno ad una comunità di fratelli, precisamente nella reciproca accettazione e nella priorità data al bene dell’altro sul bene proprio,  a immagine di Cristo (vedi il capitolo sull’obbedienza reciproca). Ciò esige molto impegno. Una comunità monastica potrebbe rendersi più attraente ai giovani offrendo loro dei modi facili e gradevoli di farsi valere e di farsi riconoscere, di espandersi individualmente. Ciò sarebbe proficuo dal punto di vista “vocazionale”; ma una dimensione monastica essenziale andrebbe perduta.

Se la virtù dell’umiltà è a rischio, è importante coltivarla. E forse il contesto di una autentica comunità di fratelli, dove la fiducia e l’amore reciproci dispensano dal bisogno di affermarsi e di imporsi, è un laboratorio dei più indicati, in cui questa “cultura” possa svilupparsi. Non veniamo meno a questo compito.

 

Armand VEILLEUX

(traduzione di Anna Bozzo)