27 febbraio 2000

Capitolo alla Comunità di Scourmont

 

 

Ancora qualche parola sull’ubbidienza

 

            Il capitolo quinto della Regola di san Benedetto, che ho commentato domenica scorsa, cominciava con le parole: “Il primo gradino dell’umiltà è l’ubbidienza senza indugi”. Ora, dato che Benedetto fa un lungo capitolo sui gradini dell’umiltà (cap. settimo), sarebbe bene vedere ciò che dice dell’ubbidienza in questo capitolo. Oggi ci fermeremo specialmente sui tre o quattro primi gradini. (Lascio da parte per il momento il capitolo sesto sul silenzio, e la lunga introduzione del capitolo settimo).

 

            Il capitolo quinto poneva le basi teologiche e spirituali dell’ubbidienza. Al capitolo 7 Benedetto ci riconduce – letteralmente – ai piedi della scala. Una scala che ci aiuterà a salire, un gradino dopo l’altro. Il primo gradino, la cui descrizione è abbastanza lunga e sulle prime può non sembrare di una logica stringente, tratta della necessità di riconoscersi debole e peccatore, di portare nel cuore il timor di Dio e di ricordare costantemente tutto quanto Dio ha comandato. E’ in questo modo che si eviterà di fare di testa propria, sapendo che si vive di continuo sotto lo sguardo di Dio e dei suoi angeli. Si tratta di rinunciare alle proprie volontà (al plurale) per fare la volontà (al singolare) di Dio. Se siamo coscienti che Dio è presente a noi, ai desideri (molteplici) della carne si sostituisce il desiderio (al singolare) di Dio, che ci permette di dire con il profeta: Davanti a te sta ogni mio desiderio.

 

            In fondo Benedetto qui tocca un problema divenuto particolarmente acuto nella nostra epoca – quello dell’unità personale, da scoprire, conservare o ritrovare in una esistenza umana sempre più suddivisa tra diverse attività. La facilità e la rapidità dei mezzi di comunicazione, il fatto che le persone appartengono sempre di più, e simultaneamente, a diverse comunità umane; e, in generale, il fenomeno dell’accelerazione della storia, fa sì che la nostra vita, anche dentro i monasteri, sia riempita da diverse attività. La molteplicità delle responsabilità, la mole di lavoro e perfino la diversità delle occupazioni non è in sé un ostacolo ad una unione contemplativa con Dio. La chiave della riuscita o del fallimento è il fatto di possedere o meno una autentica unità interiore.

 

            Durante i miei due primi anni di studi a Roma, all’epoca del Concilio, volendo approfittare al massimo di questo tempo privilegiato, mi ero gettato a capofitto in una grandissima quantità di attività, a livello accademico e monastico,  seguendo nello stesso tempo da vicino tutto quanto si viveva al Concilio. Alla fine del secondo anno, ero letteralmente sfinito, e a un certo momento ho pensato che dovevo tornare al mio monastero e smettere di proseguire gli studi.  Il “maestro degli studenti” di allora, il Padre Basil Morison, mi diede un consiglio d’oro. Mi disse: “Tu ti interessi a tutto, e va bene. Tu vuoi imparare e fare molte cose in una volta, e va bene: hai bisogno di tutto questo per il tuo equilibrio personale. L’importante è scoprire ciò che fa l’unità di tutto questo e organizzare tutta la tua vita intorno a questo polo. Questo consiglio è stato una illuminazione, che non solo mi ha aiutato nell’immediato, ma che ho tentato di seguire da allora – senza dubbio non sempre con molto successo.

 

            Oggi mi rendo conto che il consiglio che mi dava Padre Basil era quello che si ritrova nel primo gradino di umiltà di san Benedetto.  Benedetto vuole che arriviamo fin dall’inizio a conoscere noi stessi con tutti i nostri desideri – i migliori e i meno buoni – con i nostri talenti e i nostri limiti, con i nostri successi e i nostri fallimenti, e, sapendo che Dio ci guarda costantemente con il suo sguardo di Padre, vuole che arriviamo ad accettare che la sua volontà sia il nostro unico “desiderio”, al di là di tutte le nostre volontà particolari; e che questo desiderio faccia l’unità della nostra esistenza.

 

            E’ unicamente nella misura in cui arriviamo a vivere in questa luce unificante della volontà di Dio e del suo sguardo su di noi – una misura che non è mai piena quaggiù – che ci è possibile accettare la realtà. Possiamo allora servire gli altri, senza esercitare su di loro il potere. Possiamo vivere dei fallimenti senza cadere in depressione, così come possiamo vivere dei successi senza inorgoglirci.

 

            Se non ci si accetta come si è, si corre il rischio di intestardirsi in sforzi inutili per superare i propri limiti, al fine di arrivare con le proprie forze a realizzare l’immagine ideale che ci si è fatti di se stessi. Oppure si corre il rischio di scoraggiarsi,  pensando che non ci si arriverà mai, e si comincia allora facilmente a rendere di ciò responsabili tutti coloro che ci circondano, e, complice la psicoterapia, a gettare la responsabilità sulla nostra infanzia, i nostri genitori e nonni. – Non voglio sottovalutare l’aiuto che può portare, in certi casi, una buona psicoterapia; ma, in circostanze ordinarie, l’accettazione serena della propria piccolezza e debolezza davanti a Dio può essere la più efficace delle terapie.

 

            Nella misura in cui Dio ci dà la grazia di accettarci come siamo, con tutte le dimensioni, anche le più contraddittorie del nostro proprio essere personale, nell’unità dello sguardo di Dio su di noi, ci diventa possibile accettare gli altri che vivono una simile complessità.

 

            La nostra Ratio (o “Documento sulla formazione”), nel suo Prologo (n.4) descrive molto bene ciò che accade nella scuola dell’amore che è il monastero, se l’esperienza vi è vissuta positivamente: “ In questa scuola di carità, monaci e monache progrediranno nell’umiltà e nella conoscenza di se stessi. Via via che scopriranno le profondità della misericordia di Dio nella loro propria vita, impareranno ad amare. Distaccati a poco a poco dalle false fonti di sicurezza, cresceranno nella dipendenza di fronte a Dio, e correranno, il cuore dilatato, nella via del suo servizio.” E’ detto tutto: Non si può amare che dopo aver fatto l’esperienza di essere amati. E questa esperienza è prima di tutto quella dell’amore misericordioso di Dio nella nostra stessa vita. Si fa questa esperienza se ci si è prima di tutto riconosciuti deboli e peccatori, dunque oggetto dell’amore misericordioso del Padre. Allora si può correre, il cuore dilatato,  sulla via dell’ubbidienza.

 

            Benedetto si è dilungato su questo primo gradino, perché la sua esperienza pastorale ha dovuto mostrargli che non vi è alcuno sviluppo spirituale possibile, e nemmeno alcuna maturità umana, senza questa unificazione della persona sotto lo sguardo di Dio. Potrà in seguito enumerare in modo molto più rapido i gradini successivi, che sono per altro più importanti.

 

            Il secondo gradino mette esplicitamente il monaco davanti a Cristo, che non è venuto a fare la sua volontà, ma quella di suo Padre che lo ha mandato. E il terzo gradino menziona per la prima volta (in questo capitolo) l’ubbidienza a un superiore. “Il terzo gradino dell’umiltà consiste nel sottomettersi  a un superiore in tutta obbedienza per l’amore di Dio”, imitando colui che “si è fatto obbediente fino alla morte”.  E’ importante notare che l’obbedienza di cui parla qui Benedetto non consiste nell’eseguire tale o talaltro ordine che viene da un superiore, ma in una attitudine di sottomissione che non ha altro motivo che l’amore di Dio e l’imitazione di Cristo.

 

            La menzione dell’ubbidienza a un superiore ci conduce alla realizzazione ben concreta di questo ideale nella vita di tutti i giorni. Benedetto sa che coloro che esercitano l’autorità sono uomini limitati e peccatori e che possono fare degli errori.  Viene dunque, di seguito, ed è il quarto gradino,  alla situazione in cui possono essere dati ordini difficili, tali da contrariare e perfino impossibili – ordini che possono perfino creare situazioni di ingiustizia. Torneremo più tardi su questa questione, a cui Benedetto del resto consacra, più in là nella Regola, un capitolo completo.

 

Armand Veilleux

 

(traduzione di Anna Bozzo)