13 febbraio 2000

Capitolo  alla Comunità di Scourmont

 

 

Desiderio di Dio

 

(A proposito  del cap. 4 della Regola di san Benedetto)

 

 

               

                Non vorrei oltrepassare il capitolo 4 della regola di san Benedetto senza fare alcune riflessioni su una dimensione della vita spirituale che vi si trova e che è cara a  san Benedetto: la dimensione del desiderio.

 

            Questo quarto capitolo su “Gli strumenti delle buone opere” comincia con una prima esortazione che dà senso alla lunga lista di “prescrizioni” che segue: “Prima di tutto amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (v.1). Questo linguaggio dell’amore scandisce in un certo senso tutto il capitolo. Certo, bisogna “non preferire nulla all’amore di Cristo” (v.21), e per questo occorre non soltanto amarsi scambievolmente tra fratelli (“venerare gli anziani e “amare i giovani” (v.13). Bisogna anche amare le pratiche che ci avvicinano a Dio: “amare il digiuno” 8v.13) e “amare la castità” (v.64).

 

            Tuttavia, questo Dio che si deve amare con tutto il proprio cuore, con tutta l’anima e con tutte le proprie forze, non lo si possiede ancora. Non si può che desiderarlo, di un desiderio che è tensione di tutto l’essere verso l’oggetto amato. Per questo il versetto che costituisce in qualche modo il centro di questo capitolo è il versetto 46: vitam aeternam omni concupiscentia spiritali desiderare – « Desiderare la vita eterna con un ardore tutto spirituale ».

 

            Si ritroverà questa nozione del desiderio in Benedetto, quando parlerà della pratica ascetica che è la Quaresima. Per lui la Quaresima non deve portare nulla di nuovo, se non un’intensificazione di tutti gli elementi costitutivi della vita cristiana e monastica, in modo che il monaco possa aspirare alla Pasqua con “tutta la gioia del desiderio spirituale”.

 

            Il desiderio di Dio è già, per sua stessa natura, una unione a Dio, e dunque una preghiera. Il desiderio è in effetti pura apertura all’altro, piena ricettività. Vi è una grande differenza tra “bisogno” e “desiderio”.  Un bisogno è una tensione verso un bene che ci è necessario per la nostra crescita o il nostro benessere. E’ la tensione verso un bene che in generale noi possiamo afferrare, accaparrare, fare nostro e trasformare in noi stessi. Prendiamo l’esempio della fame. La fame è la tensione verso il nutrimento. Quando prendo il cibo e lo consumo, lo faccio mio, e il cibo diventa parte di me stesso. Io lo distruggo ed esso distrugge la mia fame. Dopo di che, la tensione – il bisogno – non esiste più. Dio ci ha creati con molti bisogni (è una delle bellezze del nostro essere creature), e anche con la capacità – e la responsabilità – di rispondere ai nostri bisogni. Noi abbiamo in comune la maggior parte di questi bisogni con il resto della creazione.

 

            Ma in quanto esseri umani, creati a immagine di Dio, e chiamati a partecipare alla sua natura divina, noi abbiamo qualcosa in più. Anche se un giorno arrivassimo a soddisfare assolutamente tutti i nostri bisogni, avremmo ancora questa tensione verso qualcosa di più, verso un surplus di esistenza che non possiamo che ricevere come puro dono.  É questo in noi lo spazio del desiderio, che è pura apertura, pura ricettività. É l’apertura delle mani pronte a ricevere il dono.  E poiché questo desiderio è sempre l’attesa di un puro dono,  è per sua natura apertura ad una relazione personale con il donatore di questo dono.

 

            Se noi siamo attenti a questa distinzione tra “bisogno “ e “desiderio” , noi possiamo dire che non abbiamo bisogno di Dio, perché Dio non può mai essere l’oggetto (neppure l’Oggetto con la “O” maiuscola) dei nostri bisogni. Noi non possiamo afferrare Dio, non possiamo farlo nostro e trasformarlo in noi stessi. Egli può tuttavia – e deve – essere l’Oggetto del nostro desiderio. Noi non possiamo neppure nascere alla vera vita senza questo desiderio.

 

            Sono convinto che è di questo desiderio che parla san Paolo nel capitolo ottavo della Lettera ai Romani, quando menziona il gemito dello Spirito in noi, simile ai gemiti di una donna in travaglio. Questo gemito dello Spirito in noi è la nostra aspirazione alla piena crescita del seme di vita divina messa in noi il giorno della creazione, la piena realizzazione dell’immagine di Dio in noi, la nostra piena trasformazione a immagine di Cristo.  Non si tratta di qualcosa che noi possiamo realizzare con i nostri mezzi,  non  si tratta di un bisogno che noi possiamo soddisfare, è un dono puramente gratuito verso il quale noi possiamo e dobbiamo tendere, come dice Benedetto, con un ardore spirituale, cioè con l’ardore dello Spirito di Dio in noi.

 

            Quando facciamo nostro questo gemito spirituale che abita in noi, quando facciamo affiorare al livello della nostra coscienza questo desiderio della pienezza di vita divina che ci abita, proprio per via del nostro essere creati a immagine di Dio, il nostro gemito si trasforma in grido, proferito simultaneamente dal nostro cuore e dallo Spirito Santo: “Abba, Padre”.

 

            La lunga serie di prescrizioni del capitolo quarto della Regola di san Benedetto “…non rubare, non desiderare…amare il digiuno… visitare i malati.. dire la verità…non mangiare troppo… pregare frequentemente…ecc.”  mostra bene che per Benedetto questo intenso desiderio di Dio non è una esperienza mistica occasionale e furtiva. Esso si inserisce in tutto lo spessore della nostra vita umana di tutti i giorni.

 

            L’esperienza di Dio quaggiù non è mai immediata. Il riconoscimento dell’Altro richiede il dialogo,  prima di tutto la coscienza del desiderio di Lui, del desiderio che è di Dio, e poi la nostra risposta a questo desiderio. Prima di desiderare Dio, dobbiamo fare l’esperienza di essere desiderati da Lui. Questo desiderio richiede anche una attività conforme ad un “testamento” o “patto”.

 

            Il movimento psicologico della fede nell’esperienza propriamente cristiana è una sintesi tra, da una parte, la percezione di una realtà oggettiva – spesso una realtà dura e difficile -  e dall’altra, il suo significato come manifestazione di un desiderio di Dio. La preghiera, quando diventa una esperienza autenticamente cristiana, implica sempre una attività -  o in ogni caso un’attitudine - di discernimento. Tutto può entrare nella preghiera cristiana: l’amicizia e l’amore, il desiderio, il dubbio, il lavoro, la vita e la morte. Non vi è nulla che non possa essere messo in relazione con la Parola di Dio rivelata in Gesù Cristo. Nulla che non possa essere, nella preghiera, una occasione di confrontare i nostri molteplici “desideri” con l’altra dimensione del desiderio – il desiderio dell’Altro.

 

            Questa preghiera di discernimento è così importante nell’esperienza cristiana della preghiera – privata o pubblica – che sarebbe un impoverimento il voler ridurre il discernimento ad una semplice ubbidienza passiva e la mistica ad una contemplazione disincarnata che non fosse centrata sulla conoscenza del Verbo incarnato.

 

            Già nell’Antico Testamento, ciò che fa la bellezza e la ricchezza della preghiera dei salmi, è che essa è quella di oranti che non esistano ad esprimere tutti i desideri dei loro cuori – talvolta anche quelli che ci sembrano inaccettabili -, al fine di confrontarli alla volontà del loro Dio.  È in questo stesso senso che san Benedetto, nel capitolo quarto della sua Regola, mette a confronto i precetti di amare Dio con tutto il cuore e di non preferire nulla all’amore di Cristo, con le tentazioni e gli istinti più profondi dell’uomo, segnato dal peccato, ricordando così al monaco di non desiderare, di non essere orgoglioso, di non agire per invidia, ecc.  L’unica maniera di vincere tutte queste tentazioni è di infrangerle contro la Roccia che è Cristo (v.50).

 

Armand Veilleux  ocso

 

(traduzione di Anna Bozzo)