Capitolo del 30 gennaio 2000

Abbazia di Scourmont

 

Gli  strumenti delle Buone Opere (RB4)

 

Le mie conversazioni sulla Regola di San Benedetto non intendono essere dei veri e propri commenti alla Regola. Sono piuttosto riflessioni che vi propongo a partire da ciascuno dei capitoli di questa Regola.  Se si trattasse di un vero commento, ne occorrerebbero più di uno  per commentare il capitolo 4, intitolato “Gli strumenti delle Buone Opere”, e che comporta una lunga lista di 74 brevi raccomandazioni molto diverse tra di loro, andando da “amare il Signore Dio con tutto il cuore” o “non preferire nulla all’amore di Cristo” fino a “non uccidere” e “non commettere adulterio”.

           

            I grandi commenti classici della Regola, o si sono sforzati di trovare un certo ordine tra queste massime, oppure hanno spiegato che non bisognava cercarvi un ordine… Nella breve conversazione di questa mattina vorrei fare qualche riflessione più generale.

 

            Quasi tutte le raccomandazioni di questo capitolo della Regola di san Benedetto, sia quelle in forma positiva, (come, per esempio, “rinunciare a se stessi per seguire il Cristo”, “recare sollievo ai poveri”, “vestire chi è ignudo”, “visitare chi è malato”), sia quelle in forma negativa (per esempio “non rubare”, “non nutrire desideri illeciti”, “non rendere male per male”) non hanno nulla di specificamente monastico. Esse valgono per tutti i cristiani, e addirittura per ogni uomo o ogni donna. Questo deve innanzi tutto ricordarci che prima di essere monaci siamo cristiani, e prima di essere cristiani siamo esseri umani.

Noi siamo delle persone, create a immagine di Dio, che hanno ricevuto il messaggio di Cristo e si sforzano di vivere il Vangelo di Gesù Cristo secondo la via monastica. Non possiamo essere monaci cristiani, se non nella misura in cui viviamo onestamente secondo tutte le esigenze della nostra umanità.

 

            All’epoca di Benedetto, come del resto all’epoca dei grandi eventi monastici del quarto secolo, sia in Palestina e in Siria, sia in Egitto, la vita monastica era percepita molto meno che ai nostri giorni come una forma di vita nettamente distinta dal resto dei mortali.

 

            Nel corso dei secoli, soprattutto in Occidente, abbiamo assistito ad una diversificazione sempre maggiore delle forme di vita cristiana – una sorta di “specializzazione”. Certo, i monaci hanno sempre privilegiato certi valori del Vangelo, e hanno cercato di mettere questi valori al centro della loro vita e di organizzare tutta la loro vita intorno ad essi. Ma, a poco a poco, essi si sono considerati – e sono stati considerati – come gli “specialisti” di questi valori spirituali. Nella forma di società del Medioevo, chiamata la “Cristianità”, in cui la fede era viva (anche se la morale non era probabilmente migliore che al giorno d’oggi),  la presenza visibile delle comunità monastiche ricordava al resto della popolazione questi valori. Così pure, molti ministeri che nei primi secoli erano esercitati dai cristiani nel loro insieme, sono diventati la prerogativa del clero. La secolarizzazione a cui si è approdati oggi è forse la conseguenza logica di questa distinzione netta tra i diversi “Ordini” e le diverse forme di vita.

 

            Noi non viviamo più in situazione di “Cristianità” e gli sforzi fatti da certi movimenti per ristabilire una tale situazione sociale di “cristianità” sono illusori.

E’ possibile tuttavia discernere qualcosa di molto positivo nella Chiesa e nella società di oggi – qualcosa che va proprio nel senso opposto dell’evoluzione occidentale negli ultimi sette od otto secoli. Da una parte numerose persone che, pur avendo preso le distanze dalle istituzioni ecclesiastiche, sono molto sensibili ai valori evangelici e si sforzano sinceramente di conformarvi la loro vita. Ma soprattutto, in molti uomini e donne, che si considerano membri fedeli della Chiesa, si trova un desiderio profondo di vivere i valori di ascesi e di contemplazione, che spesso nel passato venivano considerati come propri ai “religiosi” e alle “religiose”,  e perfino di mettere questi valori al centro della propria vita.

 

            Ciò che si chiama “crisi delle vocazioni” – che colpisce soprattutto le antiche cristianità – è forse un richiamo del Signore a ritrovare una più grande coesione tra le diverse forme di vita cristiana, e anche di vita umana autentica. Le comunità tradizionali come la nostra conservano la missione di incarnare visibilmente i valori cristiani che il monachesimo ha non solo incarnato, ma conservato nel corso dei secoli. Nello stesso tempo dobbiamo essere attenti  a tutto ciò che lo Spirito di Dio suscita oggi e costruire dei ponti tra noi e tutte le forme di vita che si sforzano di riunire, spesso in un’unica comunità – con o senza riconoscimento ufficiale – uomini e donne, persone sposate e persone celibi consacrate, laici e religiosi, talvolta persone di diverse appartenenze confessionali, ma tutte riunite intorno ad una medesima ricerca spirituale.

 

            Restiamo all’ascolto dello Spirito, che soffia dove vuole.

 

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Notizie dai nostri monasteri dell’India

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            Armand VEILLEUX

 

(traduzione di Anna Bozzo)